C’è un nuovo rumore sui sentieri della Valle Pesio, ma non è di cascate scroscianti, non è di passi sulle pietre, non sono i versi degli animali nel bosco, né i bambini che ridono, aspettando il pulmino della scuola. È un clic sommesso, un movimento di pollice. La montagna entra nei telefoni e, in un batter baleno, dai telefoni passa la montagna, la natura.

La Certosa con il suo chiostro porticato e, sullo sfondo, i boschi; il massiccio del Marguareis, il Pis del Pesio, il rifugio Garelli, tra i più “gettonati”, quelli con il maggior numero di Like e di visualizzazioni. Ma anche scorci di borgate e le immancabili cascate del Saut, o i cervi nell’osservatorio faunistico. Tutto disponibile, subito, per tutti. A distanza di molti chilometri si possono vedere foto scattate e postate. Talvolta, anche immediatamente, si può vedere la neve scendere sulle foglie di castagno, anche stando seduti, ad esempio, in una metropolitana. La vetta diventa feed (un flusso di contenuti), l’escursione si fa story (breve video), il respiro didascalia.
I social network, nati in recinti chiusi e cresciuti fino a diventare piazze espressive, hanno creato un’altra geografia: un’inter-realtà, dove i legami on-line, digitali, sono adesso più concreti che mai. Ma non ci stupiamo più di questo. Nello zaino, accanto alla borraccia, oggi portiamo anche la nostra identità pubblica. Scegliamo come presentarci (impression management), curiamo le liste di amici, setacciamo mappe, tag e hashtag come fossero carte IGM. La salita continua ad essere fatica, certo, va detto. Ma sembra imprescindibile scattare col telefonino e condividere le proprie emozioni o “esperienze”, dove siamo diventati sempre più bravi a giocare con la luce migliore, l’inquadratura, il soggetto suggestivo, la caption d’effetto (didascalia). In altre parole, ciò che colpisce il nostro cuore e intelletto, confluisce in foto o video che tendono a essere solo un “wow” ben montato.
Non è un male in sé. Queste sono considerazioni volte a far riflette, non a criticare. Io per prima sono parte “del sistema” e, con un’intenzione precisa, gestisco un profilo social, sulla piattaforma Instagram, che ho chiamato @alta.valle.pesio e che ha come logo un cervo con il suo palco, nero su sfondo giallo (nelle psicologia dei colori uno degli accostamenti “più impattanti”). Non è una pagina a sfondo pubblicitario, come lo sono la maggior parte, semmai un mezzo – il più attuale – per convogliare buona parte delle esperienze che vengono fatte a livello locale e cogliere i flussi e gli andamenti di quel che sta accadendo. Una moderna ricerca antropologica, insomma. Perché le reti sociali sanno essere laboratorio di empowerment (potere di agire), ma anche dove trovare esempi, consigli, o anche gruppi accoglienti. Certo, il focus centrale è la montagna e, a cascata, tutti i suoi collegamenti: la natura, lo sport, l’aria pura, le tradizioni, ecc… Non c’è da stupirsi, è tutto molto preciso in quel settore della green economy che non si occupa di energie rinnovabili, semmai di marketing e comunicazione. Così un escursionista può “vedere” quali panorami un amico ha condiviso e, magari, progettare il suo prossimo trekking lì; chi studia botanica condividere foto di piante che qualcun’altro imparerà a riconoscere; o magari, semplicemente, una persona si commuoverà nel rivedere le pietre, ricoperte di muschio, delle casa della borgata in cui viveva da piccolo.

Le comunità digitali virano su aspetti differenti, in base a ciò che “più piace”, riproponendo con sistemi algoritmici ciò che è maggiormente in linea con i propri interessi. E quello che sembrava solo un mondo di nicchia, oggi non lo è affatto. Molte persone vengono in valle Pesio, più di quanto gli operatori turistici immaginino. Arrivano anche da molto lontano, e non solo per “picnic della domenica” (come venivano chiamati fino a qualche anno fa). E se i social facilitano l’incontro e persino la seduzione per paesaggi incontaminati, nascono cordate di amicizie che altrimenti non si sarebbero incrociate, proprio legate ai “sentieri” di questa valle.
Poi, certo, vi è la dimensione economica: micro-imprese della valle, rifugi, guide, agriturismi, realtà locali, trovano voce e pubblico trasformando il passante in ospite e, quindi, l’ospite in “spettAutore” e “commentAutore” che racconta, recensisce, e a sua volta consiglia. Così la montagna non è più periferia: sta al centro della mappa mentale di chi la ama e la “segue”.

Non ultimo vorrei porre l’attenzione anche su altri aspetti. Esiste l’ombra del nuovo paesaggio. Il corpo fisico, che in montagna è misura e limite, nei social non può arrivare davvero al 100%, ma si scompone in immagini parziali: mostriamo ciò che ci conviene, ciò che è “bello” e suggestivo. Talvolta neanche con lo scopo del consenso (like, commenti, visualizzazioni), ma quasi solo per noi stessi. Perché siamo caduti vittima del fascino digitale e non siamo più in grado di “tenere solo per noi” una merenda fatta con la famiglia o la vista di un inaspettato branco di camosci. Con il rischio che ciò che immortaliamo si trasformi in una performance e in accumulo di visibilità.
Sì, anche il linguaggio è cambiato. Ciò che associavamo a: naturale, stagionale, tradizionale, come ad esempio il fieno, la transumanza o l’alpeggio, hanno assunto una cornice narrativa, spesso funzionali alle strategie di marketing cui già facevo menzione. E anche se non c’è nulla di malsano nel raccontare e promuovere, quando il racconto prende il posto della cosa, il soggetto in sé tende ad impoverirsi. La sensazione che ho – opinabile e assolutamente volta al dibattito costruttivo – è che una baita sia un set, un sentiero un format, una fioritura un trend del momento.

Ma la montagna, simbolo ostinato, emblema di distacco dal grigiore, deve essere per forza condivisa? O, in fondo, questo è anche un modo di “parlare” di temi relativi la valle? Tutto sommato, con sistemi differenti, il naturalista inglese Clarence Bicknell scriveva al botanico ginevrino Emile Burnat del Cypripedium calceolus (la “scarpetta di Venere”). Allora la domanda – volutamente aperta – è un bene, un male, o semplicemente lo specchio della nostra era? È giusto rendere “fruibile” a distanza quasi tutto ciò che vediamo e viviamo in quota, o sarebbe più saggio conservare zone d’ombra, silenzi non digitalizzati? O forse la questione non è scegliere tra l’omettere o il condividere, ma imparare una grammatica: mostrare per educare, proteggere, orientare; evitare quando il tacere custodisce. Oppure lasciar scorrere e accettare anche questo sovraccarico di immagini e tag. Consci che il tentativo di raccontare la fatica su un sentiero di montagna va comunque oltre una foto riuscita. E accettare che ogni vetta meriti un post, sebbene alcune albe resteranno comunque tra noi e il loro freddo.

In fondo si tratta di una moderna “necessità” di esprimersi e raccontare. Un’evoluzione di tecniche come la scrittura o la fotografia (intesa come “sport con la reflex”). E in quest’ultimo caso ricordo con piacere un corso tenuto dall’Ente Parco nel 2013, dove parteciparono come relatori apprezzati professionisti, dalla storica dell’arte Prof. Fulvia Giacosa, al noto fotografo Michele Pellegrino. Ecco, quello fu un’importante momento di apprendimento. Non solo delle tecniche fotografiche e della lettura dell’immagine, ma anche di consapevolezza della Storia della fotografia, che parte da molti anni prima dell’avvento dei social, e che ha protagonisti strepitosi, ciascuno con il proprio modo di intendere e adoperare lo strumento “fotografia”. Oltre alle asserzioni di Pellegrino in merito alla post-produzione fotografica che, se riversate nel campo dei social media, compete le modifiche di foto e video, sino all’utilizzo dei filtri.
Un’impressione che sento di suggerire è che non si tratti di demonizzare i social, né di santificarli. Semmai di restare “umani” in un ambiente che chiede misura. Perché “la natura produce la più grande emozione che l’uomo possa provare” (Così lo storico e filosofo londinese E. Burke scriveva in un suo saggio sull’origine delle nostre idee di sublime e bello, nel 1757).

Le montagne sono spazio di fatica, di contemplazione; emblema indiscusso di spiritualità, ma anche fonte d’ispirazione artistica (“Le montagne sono le cattedrali della terra”, suggeriva J. Ruskin). E nei secoli hanno continuato a esercitare questa duplice attrazione: estetica e interiore. Perché colpiscono l’immaginazione ma, ancora di più, alimentano il bisogno di solitudine, introspezione e di ricerca di senso. Senza accorgercene continuiamo a percepirle come un’allegoria del Medioevo, di quel periodo storico che è un “altrove simbolico”, fatto di un insieme di idee come: genuinità e vita semplice. Dove le immagini che popolano il nostro immaginario rurale, sono proprio quelle che riproponiamo nei nostri scatti: alberi, torrenti, mulini, antichi mestieri, ritmi lenti e vita all’aria aperta. Tutti elementi che riconducono a un rapporto armonico con la natura e che sono il risultato di una sedimentazione storica lunga secoli. Ed è forse da qui che nasce il bisogno, sempre più diffuso, dell’idea stessa di Natura, come totalizzante e distaccata dal caos del mondo globalizzato. Ma che, paradossalmente, fruiamo proprio grazie ai mezzi tecnologici di quel mondo lì. Con una logica ribaltata che passa attraverso parole chiave, ovvero gli hashtag del nostro tempo: #green, #sostenibilità, #natura, #montagna.
Manola Plafoni
[Questo articolo si trova sul N. di Dicembre 2025, della rivista “Chiusa Antica“]
