Una volta si parlava molto. Adesso tutto è un po’ diverso. Una volta c’era l’abitudine di ritrovarsi
e parlare. Un po’ come accadeva, ad esempio, in piazza, o nella bottega del barbiere di paese.
C’erano sempre amici o clienti. Non che facessero nulla di che… Stavano lì, anche per un’intera
mattinata. E parlavano.
Negli anni Cinquanta, il calzolaio Francesco Canavese di Chiusa Pesio aveva la piccola cucina
proprio accanto alla bottega. E il ragazzino seduto sulla seggiola, con le gambe penzolanti, i
calzettoni di lana che gli scendevano un po’ sulle caviglie, ascoltava i discorsi provenire dalla
stanza attigua. Dove le voci del padre e delle altre persone risuonavano familiari. Raccontavano
aneddoti degli anni addietro, di ciò che avevano fatto assieme o, magari, di episodi della guerra che
avevano vissuto. E a volte c’erano anche persone che erano andate a vivere in Francia, che a loro
volta raccontavano le fatiche che avevano dovuto affrontare per adattarsi, nel nuovo paese.
Il ragazzino si appassionava a quei racconti. Li ascoltava con piacere e immaginava le scene di quel
che sentiva dire. Era incuriosito e al tempo stesso entusiasta di quelle storie, molto più vicine e vere
della Storia che studiava sui libri. In fondo gli antichi romani sembravano personaggi mitici, mentre
i racconti delle persone nella bottega del padre gli apparivano reali. E per questo più coinvolgenti.
All’epoca padre e figlio non sapevano di avere in comune la stessa propensione al ricordo. Quel
ricordo che si trasforma in Storia quando viene tramandato, interpretato, e diventa fondamento per
la comprensione del passato. Francesco conservava i ritagli di giornale con le notizie più importanti
sulla Guerra. Ma, curiosamente, anche la moglie Anna – detta Nina – aveva messo da parte l’unico
numero di un giornaletto intitolato “La Zanzara”, stampato dai fascisti nel giugno del ’44. I quali –
Antonio Ceravolo e Alfredo Mennuto – l’indomani della pubblicazione, erano stati presi dai
partigiani e uccisi in valle. A seguito di un grave episodio avvenuto in frazione Combe, dove un
partigiano ucciso era poi stato esposto nella camera mortuaria del cimitero. (A. PELISSERO,
Chiusa Pesio Partigiana, 1946).
Francesco era figlio di Matthieu Canavese, Matteo. In paese lo chiamavano “Cek Matthieu”. Aveva
conseguito solo la terza elementare. Cosa molto comune all’epoca. Ma sapeva leggere bene e da
ragazzo, la sera, assieme a un cugino si prestava per leggere ad alta voce qualche libro acquistato o
preso in prestito. Al lume di candela, per un’oretta. Leggevano le pagine di un romanzo o di un
volume di Storia e, qualche anno dopo, iniziata l’attività di calzolaio, le storie avrebbero continuato
ad appassionarlo. E così anche per quel figlio che restava qualche metro in disparte, nella cucina
accanto alla bottega. Perché i bambini rimanevano in silenzio, all’epoca. La rigida educazione lo
imponeva. Curioso, però, come quel semplice ascolto sia divenuto, poi, una naturale inclinazione
per la Storia, quella con la “S” maiuscola. Un desiderio di comprendere il presente attraverso la
conoscenza del passato, frutto di semplice curiosità per le storie degli uomini e degli eventi che li
riguardano. 
Il figlio di “Cek Matthieu” nacque in casa nel ‘49, in Via Giovanni Mauro, accanto a dove c’era
l’ospedale di Chiusa Pesio. Al piano superiore della bottega, con i muri fatti di pietra del Pesio.
Quella bottega dove il padre riparava e realizzava scarponi robusti. Ma al figlio non toccò la sorte di
portare avanti l’attività del padre. «Abbiamo fatto tanti sacrifici per farti studiare!», ripetevano i
genitori al giovane Rino. Così come si usava dire per rimarcare le privazioni, nelle famiglie di un
tempo.
Oggi guardo Rino Canavese e, rimanendo in silenzio, sorrido compiaciuta per quella frase, sapendo
quale Uomo è diventato. Così come un po’ di commozione mi coglie, pensando ai sacrifici che
molte famiglie di un tempo dovevano compiere, per permettere ai propri figli di studiare.
Negli anni ’50 coloro che proseguivano gli studi solitamente dovevano entrare in un collegio. Ma
per le ragazze di famiglia modesta il percorso terminava con la Sesta. In alcuni rari casi con la
Settima e l’Ottava, dove con “economia domestica” apprendevano il cucito. Erano anni in cui
l’insegnamento era precluso quasi a tutte. La povertà e la semplicità erano diffuse. E, laddove una
famiglia aveva – per esempio – tre figlie, neanche alla più diligente veniva concesso di proseguire,
per non creare tensioni e discordie tra le sorelle.


C’era il maestro Capato in quinta elementare, l’anno che toccò a Rino. Agli studenti che riteneva
più meritevoli fece fare l’esame perché – proprio quell’anno – si pensava che nell’autunno
successivo sarebbe stata introdotta la scuola media. E fu così. Quel caso fortuito gli permise di
proseguire senza doversi fermare alla Sesta o entrare in un collegio religioso. E, una volta terminati
i tre anni di scuole medie, i suoi genitori riuscirono a fargli proseguire gli studi.
La scelta possibile, che permettesse di entrare subito nel mondo del lavoro, era tra l’istituto di
Ragioneria o quello Magistrale. Rino frequentò quest’ultimo, nella sezione “C”, di quattro.
Viaggiando sulla corriera tra Chiusa Pesio e Cuneo. Una corriera che, negli anni, man mano che
iniziava a prendere piede l’accesso alle superiori a Cuneo, si riempiva di studenti. Talmente
ammassati a causa dello scarso numero di corse che, il martedì, le donne che volevano recarsi al
mercato, non potevano più salire.
Una volta terminate le Magistrali, il giovane Rino iniziò a svolgere l’attività di assistente ai ragazzi
di un’ex colonia agricola a Rocca de Baldi e, dopo il concorso per l’insegnamento, cominciò la sua
attività come maestro. Inizialmente con una supplenza a Pradeboni, dove il numero totale di
bambini, su tutta la scuola, era di dieci. Quindi insegnò a Vigna e a Peveragno, prima di passare a
Chiusa Pesio. Un impegno che prevedeva d’insegnare tutte le materie, per le classi terza, quarta e
quinta.


All’inizio degli anni Settanta, la vecchia scuola elementare di Vigna era ancora quella accanto alla
chiesa. L’anno in cui Rino vi insegnò, nella classe quarta c’erano quattro bambine: Franca, Teresa,
Secondina e Anna Maria. E, siccome il numero era troppo esiguo, quella stessa classe venne
accorpata ad un’altra, formata da soli maschi. Nella scuola c’era la stufa a legna e, ogni mattina,
quando i bambini entravano, la trovavano già accesa. Ma a metà mattina, a turno, uno di loro
doveva scendere nel sottoscala a prendere dei pezzetti di legno per far fuoco. E le bambine avevano
paura, perché là sotto era buio e potevano uscire i pipistrelli che si attaccavano ai capelli. Il
pavimento scricchiolante era di listarelle di legno scuro. L’odore dei gessi si diffondeva in ogni
aula. I banchi, di legno, permettevano di sedersi a due a due. Nell’intervallo si correva fuori per
giocare a palla, nel prato antistante. E i bagni erano lì, sul retro.
Qualche volta il maestro Rino portava i suoi ragazzi a fare una passeggiata per conoscere il
territorio, oppure faceva loro realizzare un giornalino ciclostilato. Ma l’idea più brillante fu quella
di intraprendere una corrispondenza interscolastica. Non sapendo con quale scuola fare questo
scambio, gli tornò in mente un suo collega, che nel frattempo era stato assegnato alla scuola di
Santa Maria di La Morra. Così i due si incontrarono e si accordarono per realizzare un gemellaggio
tra le scuole di montagna e delle Langhe. Abbinarono i rispettivi ragazzi affinché potessero scriversi
a vicenda ma, ad un certo punto, Rino ebbe un’intuizione: coinvolgere anche i genitori, in quel
gemellaggio.


Le famiglie langhette vennero accolte in valle. La strada fu riempita di disegni colorati. Le mamme
e le nonne avevano anche preso vecchie lenzuola per farne striscioni. Tutti i ragazzi aspettarono
sulla piazza di Vigna i loro corrispondenti, colmi di gioia. Grandi cartelloni inneggiavano al paese
di La Morra. E, una volta giunti in Valle, vennero accompagnati a visitare prima la scuola e,
successivamente, la Certosa. Quindi seguì una grande festa con un ricco pranzo e, la volta
successiva, l’avventura si ripeté in Langa. Questo gemellaggio durò tre anni ma quasi tutte le
famiglie rimasero in contatto tra di loro per anni. E c’era chi dalla Langa acquistava prodotti in
Valle, così come alcuni genitori, a loro volta, iniziarono a comprare l’uva di La Morra.
Intanto il maestro Rino pensò di proseguire gli studi. Si iscrisse al Magistero, ad indirizzo storico,
e il prof. Pischedda gli assegnò una tesi sul periodo napoleonico. Erano gli anni in cui Rino era
diventato il primo direttore della biblioteca civica di Chiusa Pesio, che si trovava dalla torre.
Successivamente, si iscrisse ad un’ulteriore facoltà universitaria. A scienze politiche, sempre ad
indirizzo storico. Questa volta la sua tesi fu con il prof. Rochat, sulla Storia di Chiusa Pesio, negli
ultimi cento anni. Dal 1870 al 1970.
Ma i capitoli successivi del suo elenco di ricerche e studi sono tanti e, tra questi, non mancano i
copiosi lavori nei diversi archivi di Chiusa Pesio. Parlo con Rino e, ancora una volta, mi accende un
sorriso. Non solo perché mi chiede di non scrivere queste righe, ma perché mi racconta un altro
aneddoto.


Ad un certo punto fu assegnato alla scuola di Valle Rossi, nel comune di Sommariva Perno. In
fondo, quell’incarico era pur sempre meno gravoso che essere mandati in paesi lontani come Elva.
Lì doveva insegnare e gli diedero anche un piccolo locale in cui dormire. Lui si portò da casa la
stufa, il tavolo e il letto. Non solo. Tutte le domeniche sera sua madre gli preparava delle provviste,
che dovevano durargli per l’intera settimana. Ma l’acqua del Roero non era buona, così ogni
settimana se ne portava una damigiana da Chiusa. Segno che anche agli storici in erba, non possono
fare a meno dell’acqua della valle Pesio.

La narrazione è frutto di un dialogo avvenuto a fine novembre 2024.
Questo mio racconto vuol essere un omaggio al nostro Rino. Storico di Chiusa Pesio.
Perché anche le nostre vite, sono un pezzetto di Storia.

Manola Plafoni

Articolo pubblicato sulla Rivista storica “Chiusa Antica” – Giugno 2025

[La foto, di Rino Canavese, in Bianco&Nero, è stata scattata presso la Certosa di Pesio, nel giorno del gemellaggio tra le scuole elementari della fraz. Vigna di Chiusa Pesio e la fraz. Santa Maria di La Morra (CN) nell’anno 1973]

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