
Dal fondo della piazza si sentirono le urla. La donna, che avrà avuto all’incirca 38 anni alla fine degli anni Settanta, si trovava in fondo alla scala d’ingresso dell’albergo Cavallo Bianco. Era da poco arrivato il fornitore della Segafredo con il suo furgone e la donna, che si era sporta verso l’interno del mezzo per indicare all’uomo quanti pacchi di caffè le servissero, fu sopraffatta dalla scoperta. “Ómmi, u nöst arám!” (O mio dio, il nostro rame!). Aveva riconosciuto le sue padelle, i numerosi recipienti e attrezzi, tutti in rame, che da qualche tempo erano scomparsi dalla casa materna. Oggi diremmo una batteria o l’intero set, di quel metallo che era il vero oro delle famiglie di un tempo. E quell’inaspettato e fortuito ritrovamento sembrò un segno divino. Un aiuto dal cielo della buon’anima del nonno, Martìn, a cui tutti quegli utensili erano appartenuti.
Ebbene, il racconto potrebbe partire mesi prima, in realtà. A metà febbraio, quando era venuto il tempo di uccidere il maiale. Perché all’epoca si ammazzava la bestia in quel periodo e il sangue del corpulento animale andava raccolto in un grosso catino di rame. Ma il marito della donna, nel preparare gli attrezzi necessari, si era messo a strillare non trovando il bacile. Così era avvenuta la triste scoperta. Qualcuno aveva rubato tutti gli oggetti di rame di famiglia. E l’uomo del furgone era il settimo di una serie di acquirenti che, uno dopo l’altro, aveva rivenduto quella partita del prezioso metallo. Risalendo al penultimo di questi – un giostraio – era saltato fuori che il furto era stato ad opera di un uomo del paese.
La narrazione, però, non prosegue su quel che avvenne dopo; piuttosto andando ancora a ritroso nel tempo, con la vera protagonista di questo curioso evento. “’A basèa”, il grande recipiente di rame, molto ampio nella parte superiore e più stretto sul fondo. Perfetto contenitore anche, e soprattutto, per il latte.

Le “basèe” e gli altri oggetti di rame appartenevano alla famiglia della donna da molti anni. Sicuramente suo nonno, Martino Ellena (classe 1884), li aveva acquistati o ereditati negli anni Trenta, e quando i partigiani diedero fuoco alla sua stalla a “Ciüp” – poco al di sotto del pilone dell’Olocco – riuscì a portare in salvo solo quelli. Erano nello “scò”, assieme alla legna e alle foglie secche stipate. Lì dove faceva i formaggi con il latte delle mucche. Sotto un tetto di rami e steli di pannocchie essiccati. Ma il giorno in cui andarono a chiamare Martìn, gridando per avvisarlo che “Ciüp” stava bruciando, fece appena in tempo a slegare le povere bestie che rischiavano di rimanere avvolte dalle fiamme. E su di una mula bianca, che gli prestò il suo amico Luca Mauro, caricò i preziosi oggetti di rame e li portò più a valle, nella casa che aveva a Vigna: “Ciàn da’ ròba”. In poche ore le mucche scesero lì da sole; arrivarono perché in fondo conoscevano la strada. I soldi, invece, bruciarono con la stalla.
Passarono gli anni. I vari oggetti di rame continuarono ad essere utilizzati, ciascuno con la sua funzione. Comprese “’e basèe”, che servivano per il burro. O meglio: quando si doveva fare il burro si mungevano le mucche e il latte veniva raccolto in qui recipienti di rame. Dopo qualche giorno si formava uno strato di panna e con “’a spanuèra” (una sorta di grande cucchiaio in legno) lo si raccoglieva per metterlo nella “bürèra” (la zangola).

Un cilindro di legno con un grande bastone al centro che serviva proprio per sbattere la panna che, dopo circa un’ora, si trasformava in burro. Ma quando quel compito spettava alla figlia della donna che ritrovò l’aràm – che all’inizio degli anni Settanta era una bambina – la nonna la aiutava mettendole un blocchetto di cemento sotto i piedi, così da permetterle di essere abbastanza alta da arrivare al manico di legno. Accanto a “l’arbi” (il lavatoio) alla giovane gelavano le mani, in inverno. Ma non si poteva restare nella stalla, per fare il burro. Bisognava stare al fresco. Era un lavoro faticoso e lei impiegava ben più di un’ora, prima che si formasse. Lo stesso lavoro, in estate, lo facevano vicino al pascolo di “prà nöu”, “prato nuovo”, poco distante dalla Certosa. Raccoglievano il burro in stampi di legno che, a loro volta, venivano appoggiati sulla “patèlla” (un apposito pezzo di legno con il manico).

Quindi, estratti i panetti, venivano avvolti in fogli di carta lucida, che erano stati acquistati nell’alimentari di San Bartolomeo, sulla piazza della chiesa. Eppure c’era stato un tempo in cui il burro non era fatto con ü “stòmp” (lo stampo), né si utilizzava la carta. Il burro, per rimanere compatto e al fresco, veniva avvolto dentro due foglie sovrapposte in modo incrociato. Foglie “d’lavásse” (Farfaraccio maggiore). E questi panetti venivano riposti dentro grandi “sigelìn” (secchi), affinché rimanessero al fresco, nelle cantine, perché non c’era certo il frigo. Erano realizzati con le mani, in forme appena allungate e ovoidali o, in altri casi, erano pressappoco delle sfere. Sfere di burro.
E poi, chissà perchè… il nome delle foglie che lo avvolgevano divenne lo “stanò” (soprannome) di Martìn. E, di conseguenza, della sua famiglia.
Manola Plafoni
Questo artico è pubblicato sul n. 46 – dicembre 2024 della rivista storica “Chiusa Antica”
