Dai consignori di Morozzo alla protezione imperiale di Federico II.

Salendo verso la Certosa, passata la Correria, l’ingresso è accanto al mulino. Si rivolgono un saluto e una preghiera alla Madonna della Misericordia, lì affrescata. Dal ponte di pietra il colore dell’acqua del torrente è incantevole, di un verde brillante che si mescola all’azzurro della Vergine. La chiesa è appena sopra, semplice, con un’unica navata, quasi in asse con l’accesso.

Ci immaginiamo sul finire del XII secolo, quando il monastero è stato da poco fondato. La chiesa, perfettamente orientata, per oltre quattro secoli sarà in prossimità dell’ingresso e, solo in epoca barocca, verrà soprelevata e si troverà nel punto più lontano rispetto all’accesso principale.

In questo luogo ameno si sono susseguite molteplici vicende, ma anche trasformazioni architettoniche, che, in buona parte, non sono più riconoscibili. Ebbene, il viaggio immaginativo nel Medioevo, agli esordi della Certosa di Pesio, è possibile affidandosi ai documenti
raccolti dall’avvocato Caranti, dell’illustre edizione del 1900: La Certosa di Pesio. Coadiuvato dal comm. Pietro Vayra e il cavalier Lorenzo Bertano – direttore degli archivi della città di Cuneo – erano stati ricercati, e in parte stampati, prima della sua morte. Biagio Caranti moriva il 27 marzo 1891. La memoria storica del monastero che ha lasciato con la pubblicazione postuma – grazie alla vedova Luigia Suaut-Avena – resta, ad oggi, la fonte più preziosa per studiare e meravigliarsi delle vicende della Certosa.
Esordisce scrivendo: “non è che la storia di un convento quella ch’io narro” ed è una storia che ci proietta subito nella pieve di Santa Maria di Morozzo, dove tra gli undici fondatori della Certosa, tutti originari del
luogo e consignori dello stesso, vi sono i De Braida, i De Botta, i Breolo, i Brusaporcello, i Puliselli, i Cittorenghi, i Morozzo, gli Obertazzi, i De Conterio e i Ruffini. Sebbene l’iniziativa della donazione sia
partita da Giovanni, il Priore della chiesa di San Biagio di Morozzo, con l’autorizzazione dell’abate del monastero benedettino di Fruttuaria, da cui dipende (Morozzo Della Rocca, 1894). Alla presenza di
testimoni, tra i fondatori della Certosa risulta anche l’omni populo Cluse (gli abitanti di Chiusa). Tuttavia, non vi è una menzione precisa, nè è spiegato il modo con cui il popolo chiusano stava dando la sua adesione.

Madonna del Brichetto (Morozzo - CN)

Madonna del Brichetto (Morozzo – CN)

La donazione è cospicua. Ben 3150 ettari (Beltrutti, 1978) – di cui numerosi sono di castagneti – che vanno dalla sommità della valle al limite inferiore, segnato dai torrenti Alma (Paglietta) e Corveria
(Crovera). L’intero territorio è concesso ai monaci in allodio, ovvero in piena proprietà. Ma il vero problema nell’atto di donazione – datato 1173 – risiede nel fatto che all’interno dell’area destinata ai monaci
certosini, esistevano già insediamenti e fondi privati o diritti collettivi. Per questo, nei secoli, sono numerosi i momenti di conflittualità tra la popolazione, che vantava tali diritti soprattutto per i pascoli, e
l’istituzione monastica.
I signori di Morozzo che avevano avviato la fondazione del monastero per i seguaci di San Bruno, avevano certo un solido potere nel territorio, e stavano intraprendendo una politica di promozione degli enti religiosi locali. Tuttavia, l’autorità diocesana del tempo, il vescovo di Asti cui sarebbero spettati i diritti di giurisdizione, era assente durante la stipula.


Dopo oltre quattro secoli e mezzo, come per strane rivendicazioni di omonimia, la famiglia Morozzo reclama l’esclusivo onore d’aver fondato la Certosa. Il 21 febbraio 1635 diciotto monaci certosini, con
Gervasio Cardesio e l’allora Priore Lorenzo Bergia e il vicario Vincenzo Raibaudo, firmano una dichiarazione attestante che: “illustrissimi signori Morozzo erano i fondatori del loro sacro monastero della
valle del Pesio; come appare dallo strumento datato 1173 e conservato nell’archivio delle scritture della Valle Pesio”. La dinamica dell’insediamento dei “de Morocio” – la famiglia dei Morozzo – si può far risalire almeno al X secolo, quando il vasto “comitato di Bradulo” aveva possedimenti da Bene a Cervere, Narzole, Salmour, Niella Tanaro ed anche Pedona, oltre al monastero di famiglia, San Biagio di Morozzo (gravitante attorno alla “villa” di Cuneo, che sarà fondata solo verso la fine del XII secolo). Ma in quell’epoca la valle del Pesio era ancora “caratterizzata da un forte stato di spopolamento e una spiccata preponderanza dell’incolto” (Caranti, 1900), a causa – soprattutto – degli sconvolgimenti causati dalle
invasioni saracene, nel cinquantennio culminante nel 972-73 (Comba, 1983).

Presso Chiusa i Morozzo erano proprietari solamente di appezzamenti e di una via pubblica “su una montagnola che sovrasta Chiusa, la Roccarina, dove sorge la grangia di Castellar”, il cui nome rimanda,
appunto, ad un preesistente insediamento fortificato (lo si evince in data 19 febbraio 1244, quando due coniugi vendono al monastero, per 12 Lire, una vigna in quel luogo.)


Ma torniamo all’atto di fondazione. Nel 1173 è Ulderico, nativo di Casale Monferrato, il primo Priore del nuovo cenobio. Nelle sue mani viene data, liberamente, tutta la terra, sia colta che incolta, sia di bosco.
Sembra sia stato inviato proprio dal Capitolo generale della Grande-Chartreuse. Di certo è rimasto a capo del monastero per 27 anni, fino al 1199. Durante il suo priorato vengono anche costruite la Correria (il
primitivo insediamento accanto al Vallone Cravina, all’epoca denominato rivo chiaro) e le grange di San Michele e di Rumiano. Benché esista un edificio ancora più antico, in valle: la piccola chiesa di
Sant’Andrea, sul colle Mombrisone a Chiusa Pesio, datata 1170.

L’intera valle, oggetto della donazione, va considerata in termini ampi, tenendo presente i passaggi: verso Est, attraverso la Sella del Carso, che collega la valle Pesio alla valle dell’Ellero e, in direzione Ovest,
percorrendo prima il vallone Cravina e poi il Colletto, scendendo il vallone dell’Armellina fino a Limone (Beltrutti, 1978). A Sud, sul versante oggi francese, i conflitti con le comunità oltre lo spartiacque alpino non cessarono mai, nè vennero raggiunti accordi. I documenti danno notizia di contrasti e di atti di violenza degli abitanti di Briga e di Tenda. Tuttavia, in una prima fase, alcune mediazioni e
accomodamenti vennero stipulati, almeno, tra i contadini di Chiusa e i monaci. Come nel caso del risarcimento del 1194, per delle terre incluse nel territorio donato dai consignori di Morozzo ai certosini.

Ma è soprattutto dal XIII secolo che i monaci poterono contare sull’appoggio contro le scorribande degli abitanti, della protezione concessa dai marchesi di Ceva. Protezione a partire dall’anno 1243 e, poco più tardi, di quella del vescovo di Ventimiglia. Fino alla protezione papale di Innocenzo IV, con un’apposita bolla stipulata nel 1246 (Guglielmotti, 1988), nonché quella del 1247 dell’imperatore Federico II.


La pace della Certosa non doveva essere compromessa. Con un atto del 30 gennaio 1261 gli abitanti di Chiusa venivano scomunicati dal vescovo di Asti. Con l’obbligo di riconoscere pubblicamente le proprie
colpe e riparare ai danni commessi, essi dovevano impegnarsi a non turbare più la pace della Certosa. Uno dei luoghi “più tranquilli e più ricchi di quel mirabile dono della natura, che è la poesia e l’incanto del
contrasto fra la rudezza della montagna e la pace grande del bosco e del prato”
. Come scriveva, settecento anni dopo, nel 1952, Don Giorgis, Priore di San Bartolomeo di Pesio.

Manola Plafoni

Questo articolo è pubblicato sulla rivista storica “Chiusa Antica” N. 43, giugno 2023.

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