
“Più pericoloso dal punto di vista del cristianesimo […] era il numero di opere nelle quali lo spirito rinascimentale […] mirava ad una sintesi figurativa ed emotiva tra il passato pagano e il presente cristiano.” (E. Panofsky, Studi di iconologia, 1965)
A distanza di nove anni dal mio “I capitelli della Certosa di Pesio” (Chiusa Antica, n. 23), un’intuizione accende una nuova luce sulle mie stesse considerazioni, sui significati simbolici dei capitelli del chiostro superiore della Certosa di Pesio. Dei probabili centoquattro (o centootto) capitelli sulle colonne che delimitavano un grande giardino – hortus conclusus – quadrangolare, oggi solo trentanove rappresentano l’apparato scultoreo più significativo presente nell’ex monastero. Si tratta di capitelli corinzieggianti, con un abaco quadrangolare superiore di 42 cm e un collarino di raccordo alla base. Tutti di egual misura ma, nel kalathos, presentano, negli angoli sotto le volute, due diverse tipologie di foglie: ora dal margine lobato e simili a quelle di quercia, ora quasi ovate e dal margine appena ondulato, di difficile identificazione. Potrebbe trattarsi di pioppo, di ontano o persino di magnolia; oppure, più semplicemente, di una generica stilizzazione. Queste due tipologie vegetali sono spesso orientate verso l’alto, mentre in dieci casi lo sono verso il basso. Ma ciò che più cattura l’attenzione – anche ad uno sguardo superficiale – è la parte centrale di questi capitelli, ove è scolpito un soggetto differente.

Il mio studio si rivolge a questi, con uno sguardo critico nuovo, accantonando la più immediata e logica delle vie, la simbologia cristiana legata alla devozione e alle sacre scritture.
Certo, l’uva, i pesci, il giglio, piuttosto che la pigna o il melograno e, naturalmente, croci greche e latine, appartengono sicuramente al patrimonio iconografico cristiano. Ma è guardando il penultimo capitello della manica ovest – appena prima di proseguire in quella sud – che si insinua in me un dubbio: un cartiglio sopra un compasso.

Questo è per eccellenza simbolo massonico. Ma non solo. Ragionando a ritroso nel tempo, appartiene a quella cerchia di simboli della tradizione alchemica che tanta fortuna ebbe, soprattutto, in epoca rinascimentale. Il compasso è punto di partenza (causa) e di arrivo dell’opus, rappresentando l’unità della pietra filosofale, cui l’alchimia tende. Questo strumento di misurazione è altresì attributo del vir melhancolicus, come nel famoso caso dell’incisione “Melanconia I” di Dürer del 1514. Sentimento che trova una sua precisa iconografia già nel mondo classico come filosofo in meditazione, e che nella sua etimologia greca, μελαγχολία, rivela il suo senso: la bile nera. Ovvero uno dei quattro temperamenti della medicina ippocratica (tra i numerosi studi sugli umori, ricordo, su tutti, “Saturno e la melanconia”, di R. Klibansky).
Ipotizzare che vi sia un preciso programma iconografico legato a simbologie alchemiche, nel chiostro della Certosa, è un azzardo che intendo affrontare con cautela. Se l’alchimia è stata per molti secoli la primigenia chimica, la manipolazione delle sostanze, l’esperienza legata alle forze eteriche, gli studi cosmologico-planetari, non sono che parte degli aspetti di quella disciplina. Essa è un sistema filosofico che parla sì il linguaggio esoterico, ma è anche rivolta ad un lavoro interiore sull’anima. Una via per l’accrescimento e l’elevazione. Non dimentichiamo che il mondo cristiano si concentra proprio sulla cura dell’anima e, nel caso specifico, i monaci certosini propugnavano intense forme di contemplazione e ascetismo, attraverso il silenzio e l’esperienza interiore del Desertum (a questo proposito il mio articolo su Chiusa Antica, n. 29).

Ma facciamo un passo indietro e torniamo a quando possono essere stati realizzati questi capitelli.
Probabilmente negli anni Trenta del XVI secolo vi furono importanti restauri dei fabbricati monastici (Caranti, 1900, II, p. 365), quando l’allora priore della Certosa, Carlo de’ Merli di Frabosa, venne esortato dal capitolo generale dell’ordine a ripristinare la vita regolare e a proseguire i lavori di recupero. Secondo l’architetto Tosco (2012) le maestranze provenivano dall’area lombarda. Questo vorrebbe dire inserire la scultura in un quadro più ampio rispetto a quello strettamente locale, arrivando anche in area ligure. Tra il 1503 e il 1513, al soglio pontificio è il celeberrimo Giulio II, nato Giuliano della Rovere, di Albisola. Non va, infatti, sottovalutata l’importanza dei collegamenti politici con le alte cariche liguri e, in questo quadro, si colloca Carlo Domenico Del Carretto, che promosse la costruzione della chiesa di San Lorenzo a Saliceto.

Questa venne realizzata in anni di poco precedenti la realizzazione del chiostro di Pesio, tra il 1489 e il 1514, sui resti di una più antica chiesa dedicata a Notre-Dame. La chiesa di Saliceto, vicino a Ceva (si noti anche il rapporto feudale di quest’ultima con il nostro Comune), fu voluta dal cardinale consacrato nel 1505 dall’amico Giulio II, ove vi lavorarono proprio maestranze lombarde. Ma la vera sorpresa riguarda alcune importanti somiglianze tra il repertorio scultoreo sulla facciata di quest’ultima e i nostri capitelli. In entrambi i casi troviamo la rana, anfibio

che per la sua doppia natura, legata sia all’acqua che alla terra, è considerato alchemico e simbolo di passaggio tra i due elementi. La conchiglia, emblema della via per Santiago de Compostela, a rappresentare la ricerca interiore che contraddistingue il pellegrino; il quale, proprio nel suo peregrinare, trova il senso della sua esistenza. Il globo, nella chiesa di San Lorenzo può alludere al potere imperiale, mentre nel chiostro di Pesio è certo emblema dei certosini. Ma vi sono anche altri simboli, in entrambi gli edifici religiosi, con peculiarità più forti: se a Saliceto non mancano gli elmi, nel 37º capitello della Certosa (partendo dall’angolo nord-ovest e procedendo in senso antiorario) lo troviamo addirittura alato, simbolo di Hermès, il messaggero e il più “ermetico” degli dei dell’Olimpo. Vi è poi la rosa di San Giovanni, o rosa canina, a cinque petali, che qui è raffigurata frontalmente, mostrando solo tre dei cinque petali, nel 6° capitello.

Questo fiore è un ennesimo simbolo alchemico e nella chiesa di San Lorenzo lo si trova anche nel girale della coda di un Pegaso. Il mitico cavallo alato potrebbe trovarsi anche nella Certosa, schematizzato in zampe equine con zoccoli, sormontate da ali, nel 7° capitello. Ma è il 26º a destare la maggiore curiosità: oltre al globo sormontato dalla croce e allo stesso motto dei certosini (sic transit gloria mundi, como vento. Così passa la gloria del mondo, come il vento), vi è il più misterioso dei simboli. Se a Saliceto è presente l’athanor, il forno alchemico, qui potremmo trovarci di fronte al simbolo stesso dell’opus alchemico. Una forma circolare con la parte superiore allungata – quasi a forma di pera – con vari cerchi al suo interno. La ciclicità dell’Opera. Mentre il 3° capitello presenta la sorprendente somiglianza con una delle raffigurazioni più importanti nella chiesa di Saliceto; che la rendono famosa per i suoi “misteri” legati al mondo esoterico dei templari. Con mia grande sorpresa anche nella Certosa di Santa Maria di Pesio troviamo raffigurato Ermete Trismegisto, il padre dell’alchimia, autore del Corpus Hermeticum.

Il suo mascherone è riprodotto per ben quattro volte, eccezionalmente al posto di quelle foglie presenti in tutti gli altri capitelli. Questa identica iconografia del leggendario uomo dell’Alto Egitto è presente in pochi altri luoghi: sulla facciata di palazzo Doria di Genova e nel “Miracolo di San Filippo” di Filippo Lippi, in Santa Maria Novella a Firenze. Infine, per quanto riguarda le affinità con la chiesa templare di Saliceto, intendo far notare, non solo la presenza di uguali delfini dai denti aguzzi,

posti frontalmente (a San Lorenzo sopra un Giano bifronte), già iconografia classica presente – ad esempio – nell’apparato scultorio esterno della parte posteriore del Pantheon romano, ma anche una curiosa somiglianza tra il sorprendente – quanto raro – Bafometto (figura antropomorfa con zampe caprine ed enormi baffi). Le sue lunghe braccia terminano in volute, mentre a Pesio, nel 13º capitello, è presente un mascherone simile, con grandi corna che terminano la parte circolare sovrapponendosi alle volute.

L’uso della rappresentazione simbolica è indubbiamente un modo semplicistico di approcciare, attraverso immagini, un mondo più complesso. Si tratta, in altre parole, di estrarre un’essenza da un processo interiore, purificandola e proponendola come immagine introspettiva cui attingere; così come lo stesso alambicco è l’oggetto emblema della ricerca alchemica e di un’esperienza di crescita; al contempo un processo di liberazione spirituale, più che la mitica ricerca di trasformare il vil metallo in oro.
Tra gli altri simboli presenti nel chiostro della domus superior di Pesio – di cui ricordo sono presenti circa un terzo del totale, in quanto la manica porticata est è stata totalmente demolita, mentre quella nord è stata riempita e modificata nel XIX secolo – ve ne sono ancora altri degni di considerazione, sempre sulla scia di quest’ipotesi alchemica. Nel 2° capitello un corvo rappresenterebbe la Nigredo, la prima fase dell’opera alchemica; in quanto l’annerimento o melanosi, corrisponderebbe alla prima delle fasi della trasmutazione, ovvero la putrefazione. La quarta fase, quella della Rubedo, associata al cinabro, al mercurio e all’elemento fuoco, si identificherebbe con lo stato della coagulazione che – sempre secondo le leggi alchemiche – corrisponderebbe alla fusione tra il maschile e il femminile, ovvero il matrimonio di anima e spirito.

Nel verificare se un’immagine della Rubedo fosse presente tra i simboli dei capitelli di Pesio, mi sono imbattuta in una miniatura del 1570-80 (conservata nella biblioteca Apostolica vaticana) dove è raffigurato l’androgino, al contempo uomo e donna, ai cui piedi è presente un mostruoso essere che si sdoppia in due teste frontali; straordinariamente somiglianti ai piccoli mostri del 9° capitello certosino.

E, ancora, troviamo due lumache poste simmetricamente e poggianti su uno stelo con radici, che potrebbe alludere alla mandragola; la pianta cui fa riferimento Machiavelli nella sua opera omonima, tradizionalmente ritenuta ingrediente per pozioni magiche. La lumaca è un animale in grado di portare su di sé, con sé, la propria casa, il proprio mondo. Questo animale lo ritroviamo – tra gli altri esempi – anche nel misterioso quartiere Coppedè di Roma, celebre per i suoi riferimenti alchemici e magici. Nello stesso capitello – il 29º – sulle facce di ponente e di levante è presente un simbolo che ricorda un’aragosta. Ma ad uno sguardo più attento il crostaceo va identificato con il simbolo astrologico del cancro, così come è raffigurato, ad esempio, nella sala del mappamondo di palazzo Farnese a Caprarola (1537). Tale simbolo zodiacale si collega alla luna e, con buone probabilità, tra i numerosi capitelli mancanti per definire un disegno unitario nel chiostro, ne avremmo trovati altri.

Se, invece, il leone è il segno corrispondente al sole – nel loro ideale matrimonio, attraverso il rito della ierogamia – questo è sì presente nel 24º capitello, ma ha in mano una clava; inducendoci a pensare si tratti più di un simbolo araldico che di un segno astrologico.
Infine, in questo straordinario percorso iniziatico, che potrebbe avere una logica di lettura seguendo un ordine non necessariamente consecutivo, ma – magari – secondo un disegno musicale o geometrico, trova spazio un capitello molto curioso. Il 1° nell’angolo Nord-Ovest. Pare sia raffigurata una folta barba sormontata da un tridente e il pensiero corre subito a Nettuno, il Dio del mare che, assieme a Plutone e Giove, corrisponderebbe ad uno dei tre stati di aggregazione della materia. É curioso come questi tre soggetti siano stati raffigurati a fine XVI sec. nell’affresco caravaggesco di villa Ludovisi – su commissione del cardinale del Monte, ambasciatore dei Medici a Roma, per il suo gabinetto alchemico (distilleria) – proprio assieme ad un globo e ad un cavallo alato (Pegaso) che, come già menzionato, è presente nella manica ovest del chiostro di Pesio.

L’analisi dei capitelli potrebbe continuare, ma l’esegesi risulterebbe più forzosa. Ad ogni modo la mia ipotesi non vuole porsi come interpretazione certa, ma proporre un possibile significato nell’ottica di un programma iconografico ben consapevole e voluto. Probabilmente con un intento iniziatico. Come monito in quel luogo di camminamento tra i vari ambienti monastici. Giustificati dal periodo storico in cui riferimenti pagani, classici, ma anche astrologici, si diffusero notevolmente; in un crogiolo di valenze non disgiunte da quelle del mondo cristiano. In fondo l’Opera alchemica mimava la creazione e la genesi, in un movimento ascensionale in grado di depurare, purificare ed elevare. Come a redimere l’umanità dal peccato originale, per trovare la via della salvezza. O il Santo Graal, il leggendario calice dell’Ultima Cena, nel quale il sangue di Gesù venne raccolto dopo la crocifissione. E qui, tra i capitelli certosini, un calice è presente. Un calice di fuoco.

Manola Plafoni
Questo articolo è pubblicato sul numero 41, giugno 2022 della rivista storica “Chiusa Antica”.
Sono in corso ulteriori studi su questo tema.
Per maggiori info: manola.plafoni@gmail.com
