Saggio di Manola Plafoni

INDICE:
1. Introduzione
2. Teatro
2.1 “É Pietro Damiani, è Pietro Damiani”
La scintilla, il Teatro, la trama.
2.2 “Dite a Papa Gregorio che ci rivedremo a Bressanone”
Riferimenti storici nel testo.
3. Storia
3.1 “Correre a Roma a eleggervi un antipapa; porgere la mano all’alleanza con Roberto Guiscardo. Gregorio VII sarebbe perduto!”
Enrico IV e Gregorio VII.
4. Conclusioni
Bibliografia

- Introduzione
Un testo complesso ed affascinante come la famosa opera di Pirandello del 1921, Enrico IV, merita un’analisi approfondita anche sotto il profilo storico. Gli studi sul premio Nobel e le sue singole produzioni letterarie non mancan di certo, tuttavia il testo in questione non ha ricevuto – a mio avviso – adeguate attenzioni in merito al background storico in cui la vicenda viene ambienta, attraverso l’artificio di una “cavalcata in costume”, immergendo i personaggi del XX secolo nelle atmosfere medievaleggianti della fine dell’XI secolo.
Attraverso questo studio intendo soffermarmi sugli avvenimenti storici cui Luigi Pirandello fa riferimento, con personaggi e rimandi specifici nei dialoghi.
La mia analisi partirà dal testo pirandelliano per dimostrare quanto l’autore fosse edotto sull’argomento, e quali furono gli importanti avvenimenti storici in cui è calata la vicenda. Per questo motivo il mio lavoro è suddiviso in due parti essenziali: una prima incentrata sul Teatro e la seconda sulla Storia. Per dimostrare, infine, come l’Enrico IV non sia un dramma storico, piuttosto uno strumento drammaturgico per dipanare una storia umanamente complessa. E come quest’ambientazione venga adoperata con un doppio e opposto intento. Dalla condanna all’esaltazione del mondo medievale, che tanto affascina.

2.1 “É Pietro Damiani! É Pietro Damiani!”
La scintilla, il Teatro, la trama.
La mia memoria dell’Enrico IV, sul palcoscenico, si accende proprio sulle parole d’esordio – fulminanti – del protagonista. Nell’ultima, importante restituzione drammaturgica[1], Roberto Herlitzka[2], nei panni del re, entra vestito d’un umile saio ), alla fine del primo atto, per ricevere i suoi tre ospiti: la duchessa Adelaide[3], l’abate Ugo di Cluny e un suo monaco. Ma alla vista di quest’ultimo, sorpreso, reagisce esclamando un nome come un’accusa: “É Pietro Damiani! É Pietro Damiani!”. Queste parole, a distanza di quasi due anni, mi sono tornate in mente come l’attimo culminante di un’opera lunga circa due ore[4], segno concreto che il Teatro vive nella memoria e attraverso le emozioni che produce. All’epoca non avevo idea che quel nome, lanciato come un anatema, fosse, a tutti gli effetti, un grido minaccioso verso un personaggio storico coerente con le vicende dell’epoca rappresentate. E che quel nome racchiudesse un ampio capitolo del monachesimo e della riforma ecclesiastica[5].
Certo, analizzare questo testo drammaturgico sul piano storico richiede un’abilità in più: occorre estromettere dalla propria mente il fatto che si tratti di una finzione scenica e immergersi totalmente nell’opera. La trama del testo pirandelliano è elaborata quanto intrigante ma, prima di riassumerla, non posso esimermi da un giudizio del tutto personale. La bravura interpretativa degli attori e le scelte registiche[6] contribuiscono alla comprensione di un’opera drammaturgica di per sé non facile. Ma l’immediatezza non è possibile per due fattori: innanzitutto che la complessità intrinseca di un’opera pirandelliana[7] richieda particolare attenzione è lapalissiano; secondo, è il Teatro in sé ad essere enigmatico e misterioso. La sua essenza è nella Parola, detta e agita, con allusioni, rimandi e spesso metafore. E poi c’è l’hic et nunc[8], la natura eterea di un’arte che svanisce con la rappresentazione stessa. Arte che, non a caso, ebbe grande importanza a partire dai dotti greci dal V secolo a. C.[9], come innescatrice della catarsi[10], attraverso l’immedesimazione e rendendo consapevoli della finitezza umana.
Seguendo l’unità di tempo aristotelica[11] – tutto si svolge, infatti, in un’unica giornata – la moderna tragedia dell’Enrico IV è la storia di un uomo che decide di continuare a comportarsi da pazzo, per sfuggire alla vita reale e alla sua mediocrità. Questo in un dramma in tre atti che vede coinvolti tredici personaggi. Tra questi, tralasciando il protagonista e – per ragioni diverse – gli attori secondari come “il vecchio cameriere, Giovanni” e i due “valletti in costume”, tutti gli altri hanno un doppio ruolo. Ci troviamo nei primi del ‘900 e ognuno deve interpretare un personaggio dell’epoca di Enrico IV di Franconia (1050-1106), come quando, anni prima, era stata allestita una cavalcata in costume. Durante quest’ultima, però, Enrico IV era stato disarcionato dal proprio rivale in amore (Belcredi, successivamente camuffato da Pietro Damiani) e, battendo la testa nella caduta, si era convinto di essere realmente il personaggio che stava interpretando. Da allora la sua follia viene assecondata dai quattro servitori del nipote (di Nolli) finché, senza che nessuno se ne accorga, dopo circa dodici anni riacquista la memoria, ma preferisce fingere di essere ancora folle. Avendo poi finalmente compreso che l’incidente causato dal proprio rivale era finalizzato a sottrargli l’amata (Matilde, la marchesa di Toscana), quando questa, con la propria figlia (Frida), Belcredi, Di Nolli e uno dottore, vanno a trovarlo, lui finge di credersi ancora il re coinvolto nello storico episodio dell’“umiliazione di Canossa”. Gli ospiti provano, dunque, a ricreare una scena di vent’anni prima, pensando di farlo rinsavire. E per farlo fanno vestire Frida come la giovane Matilde (essendo la somiglianza tra madre e figlia notevole) ma, così, Enrico IV ha l’impressione di vede davanti a sé la donna amata allora e, cercando d’abbracciarla, Belcredi vi si oppone. Nello scontro tra i due Enrico IV ferisce con la spada il rivale e, a questo punto, si troverà costretto a continuare a fingere d’essere pazzo.
Questa, dunque, la trama. Ma l’intricata vicenda ha il suo fascino e la sua importanza – chiaramente – nei dialoghi e nei monologhi magistralmente scritti da Pirandello, e l’apice si raggiunge proprio nelle parole che pronuncia Enrico IV. Questi è anche l’unico di cui non ci viene mai svelato il nome, come si volesse fissare la sua identità fittizia. In un’opera che riporterebbe «al tipo di trattamento drammaturgico largamente impiegato da Pirandello […]» della «contrapposizione fra eroe isolato e gruppo sociale»[12]. Così attraverso l’eroe viene esaltato il conflitto realtà/follia, immergendo proprio la pazzia in un preciso momento storico, raccontato durante la messinscena negli antefatti, fuori dalla cornice testuale del dramma. Il periodo storico della mascherata cui il protagonista aveva partecipato insieme a degli amici, e durante la quale era caduto da cavallo e quindi impazzito, era stato scelto dallo stesso Enrico IV, visto che la donna di cui era innamorato voleva per sé la parte di Matilde di Toscana. Essendo nemica dell’imperatore, lui poteva in questo modo rimproverarle indirettamente la sua crudeltà, ed avere l’occasione di gettarsi ai suoi piedi, come nello storico episodio di Canossa.
Salta all’occhio come vi siano piani differenti. Temporali e mentali. Dal XX secolo all’XI secolo, e rimbalzando tra le condizioni di coscienza e follia. Ma un’altra caratteristica è significativa: buona parte del testo è volto a spiegare il contesto storico in cui è calata la “finzione nella finzione” e, analizzandolo analiticamente, gli apparati storici occupano circa un terzo dell’opera, tanto da non poter essere sottovalutati – a mio avviso – sebbene il cuore significante sia il mascherarsi dietro un’apparente follia. Ecco perché, nel paragrafo seguente, riporto tutti i riferimenti storici e le ambientazioni medievaleggianti presenti nel testo.

2.2 “Dite a Papa Gregorio che ci rivedremo a Bressanone”
Riferimenti storici nel testo
Atto Primo.
In una villa solitaria della campagna umbra ai nostri giorni.
Salone nella villa rigidamente parato in modo da figurare quella che potè essere la sala del trono di Enrico IV nella casa imperiale di Goslar. Ma in mezzo agli antichi arredi […] uno a destra e uno a sinistra del trono che, nel mezzo della parete, interrompe lo zoccolo e vi si inserisce col suo seggio imperiale e il suo basso baldacchino. I due ritratti […] in costume carnevalesco, uno da “Enrico IV” e l’altra da “Matilde di Toscana”.
[…] entrano Arialdo, Landolfo, Ordulfo e Bertoldo: giovani stipendiati dal marchese Carlo di Nolli perché fingano le parti di «Consiglieri Segreti», vassalli regali della bassa aristocrazia della Corte di Enrico IV. Vestono perciò in costume di cavalieri tedeschi del secolo XI.
Landolfo: E questa è la sala del trono!
[…]
Bertoldo: Ma, scusate… questa sala… questo vestiario… Che Enrico IV? …Io non mi raccapezzo bene: è o non è quello di Francia?
Arialdo: Enrico IV di Germania, caro mio! Dinastia dei Salii!
Ordulfo: Il grande e tragico imperatore!
Landolfo: Quello di Canossa! Sosteniamo qua, giorno per giorno, la spaventosissima guerra tra Stato e Chiesa! Oh!
Ordulfo: L’Impero contro il Papato! Oh!
Arialdo: Antipapi contro i Papi!
Landolfo: I re contro gli antirè!
Ordulfo: E guerra contro i Sassoni!
Arialdo: E tutti i principi ribelli!
Landolfo: Contro i figli stessi dell’Imperatore!
[…]
Ordulfo: Qua siamo tra il mille e il mille e cento!
Landolfo: Puoi farti il conto: se il 25 gennaio del 1077 siamo davanti a Canossa […] ma che nella veste del vescovo Adalberto gliel’avessero cacciato via dalla Corte i vescovi rivali di Colonia e di Magonza.
[…]
Landolfo: Uno solo tra noi, il povero Tito, aveva una bella parte assegnata, come si legge nella storia: quella del vescovo di Brema
[…]
Landolfo: […] perché nella storia è scritto che Enrico IV era odiato dall’alta aristocrazia per essersi circondato a corte da giovani della bassa.
[…]
Landolfo: Peccato veramente! Perché, come vedi, qua l’apparato ci sarebbe; il nostro vestiario si presterebbe a fare una bellissima comparsa in una rappresentazione storica, a uso di quelle che piacciono tanto oggi nei teatri. […] facevano i loro interessi a danno degli altri; vendevano le investiture, e che so io. Noi altri, invece, siamo qua, vestiti così, in questa bellissima Corte… – per far che? […]
[…]
Arialdo: No. La moglie dell’Imperatore è Berta di Susa, sorella di Amedeo II di Savoia.
Ordulfo: E l’Imperatore, che vuol esser giovane con noi, non può soffrirla e pensa di ripudiarla.
Landolfo: Quella è la sua più feroce nemica: Matilde, la marchesa di Toscana.
Bertoldo: Ah, ho capito, quella che ospitò il Papa…
Landolfo: A Canossa, appunto!
Ordulfo: Papa Gregorio VII.
Arialdo: Il nostro spauracchio!
[…]
Ordulfo: Tutti messi di Gregorio VII! Ci divertiremo!
[…]
Belcredi: […] Sfogliavo una rivista illustrata, tedesca (guardavo soltanto le figure, s’intende, perché il tedesco io non lo so). In una c’era l’Imperatore, in non so quale città universitaria dov’era stato studente.
Dottore: Bonn, Bonn.
Belcredi: […] Parato, a cavallo, in uno degli strani costumi tradizionali delle antichissime società studentesche della Germania; seguito da un corteo d’altri studenti nobili, anch’essi a cavallo e in costume. L’idea mi nacque da quella vignetta. Perché deve sapere che al Circolo si pensava di fare qualche grande mascherata per il prossimo carnevale. Proposi questa cavalcata storica […] Ognuno di noi doveva scegliersi un personaggio da rappresentare, di questo o di quel secolo: re o imperatore, o principe, con la sua dama accanto, regina o imperatrice, a cavallo. Cavalli bardati, s’intende, secondo il costume dell’epoca […]
[…]
Dottore: E lui allora scelse il personaggio di Enrico IV!
D. Matilde: Perché io […] dissi che volevo essere la Marchesa Matilde di Toscana.
Dottore: Non… non capisco bene la relazione…
D. Matilde: Eh, sa! Neanch’io da principio, quando mi sentii rispondere da lui, che sarebbe stato allora ai miei piedi, come a Canossa, Enrico IV […] ritrovarmi fedelissima e zelantissima amica di Papa Gregorio VII, in feroce lotta contro l’impero di Germania […]
[…]
Landolfo: […] Ha dato ordine che sia arrestato, e vuole subito “giudicarlo” dal trono!
[…]
Di Nolli: […] appariremmo travestiti noi.
Landolfo: […] per opera del suo mortale nemico.
Belcredi: Il Papa Gregorio VII!
Landolfo: Appunto! Dice che era un «pagano»!
[…]
Landolfo: […] E che evocava i morti! Lo accusa di tutte le arti diaboliche. Ne ha una paura terribile.
[…]
D. Matilde: […] Io sarò “Adelaide”, la madre.
Landolfo: […] La madre dell’imperatrice Berta, benissimo!
[…]
Dottore: […] il Vescovo Ugo di Cluny.
Arialdo: Il signore vuol dire l’Abate? Benissimo: Ugo di Cluny.
[…]
Belcredi: Mah, veda di trovare un travestimento spiccio anche per me.
Landolfo: Sì, ecco: di cluniacense.
Belcredi: Cluniacense? Come sarebbe?
Landolfo: Una tonaca da benedettino dell’Abbazia di Cluny […]
Ad Arialdo: E tu vai subito ad annunziare la visita della “Duchessa Adelaide” e di “Monsignore Ugo di Cluny”
[…]
Dottore: Mi dovrebbe, credo, veder bene sotto le vesti di Ugo di Cluny.
Landolfo: Benissimo […] è stato sempre accolto qua con grande rispetto. E anche lei stia tranquilla, signora Marchesa. Ricorda sempre che deve all’intercessione di loro due se, dopo due giorni di attesa, in mezzo alla neve, già quasi assiderato, fu ammesso nel castello di Canossa alla presenza di Gregorio VII che non voleva riceverlo.
[…]
Arialdo: Sua Maestà l’Imperatore!
[…]
Veste sopra l’abito regale un sajo da penitente, come a Canossa […] Ordulfo regge a due mani la corona imperiale. Arialdo lo scettro con l’Aquila e il globo con la Croce.
Enrico IV: È Pietro Damiani! È Pietro Damiani! […] Confesso che se lui non fosse venuto a impedirmelo in nome del Papa Alessandro, l’avrei ripudiata! Sì: c’era chi si prestava a favorire il ripudio: il vescovo di Magonza, per centoventi poderi […] Ma non debbo in questo momento dir male dei vescovi.
Ritorna umile davanti a Belcredi: Vi sono grato, credetemi che vi sono grato, ora, Pietro Damiani, di quell’impedimento! Tutta d’umiliazioni è fatta la mia vita: mia madre, Adalberto, Tribur, Goslar – e ora questo sajo che mi vedete addosso. […] So correggere gli errori commessi; e anche davanti a voi, Pietro Damiani, mi umilio! […] Se non è partita da voi l’oscena voce che la mia santa madre, Agnese, abbia illeciti rapporti col vescovo Enrico d’Augusta! […] Infamia!
[…]
Arialdo: Eh, sì, i vescovi rapitori.
[…]
Enrico IV: […] Sei anni avevo e mi rapirono a mia madre, e contro lei si servirono di me, ignaro, e contro i poteri stessi della Dinastia, profanando tutto, rubando […] Ah, già! Non debbo in questo momento dir male dei vescovi. Ma questa infamia su mia madre, Monsignore, […] Venne qua a trovarmi, dal suo convento […]
[…]
Enrico IV: […] E che voi, Pietro Damiani, poteste essere amico di quel tale…
[…]
Enrico IV si tira indietro e, levandosi il sajo, grida loro: Domani, a Bressanone, ventisette vescovi tedeschi e lombardi firmeranno con me la destituzione di Papa Gregorio VII: non Pontefice, ma monaco falso!
[…]
Landolfo: Monsignore è qua, insieme con la Duchessa, per intercedere in vostro favore!
Enrico IV: […] Perdono… sì, sì… perdono, perdono, […] Sento, vi giuro, sento tutto il peso dell’anatema!
[…]
Enrico IV: […] Potrei […] accettar l’ajuto dei vescovi lombardi e impossessarmi del Pontefice, assediandolo qui nel Castello; correre a Roma a eleggervi un antipapa; porgere la mano all’alleanza con Roberto Guiscardo. Gregorio VII sarebbe perduto! Resisto alla tentazione, e credetemi che sono saggio. Sento l’aura dei tempi e la maestà di chi sa essere quale deve essere: un Papa! – Vorreste ora ridere di me, vedendomi così? […] Ridereste per caso del Papa in veste di prigioniero? No. Saremmo pari. Un mascherato io, oggi, da penitente; lui, domani, da prigioniero […] Berta, vostra figlia […] è venuta con me […] ha voluto seguirmi come una mendica, ed è gelata […] da due notti all’aperto, sotto la neve!
[…]
Atto secondo.
Landolfo: […] la Marchesa Matilde di Toscana ha implorato con loro dal Pontefice la grazia, che sia ricevuto. […] È che teme tanto l’avversione di quella Marchesa che ospitò il Papa nel suo Castello. È strano: nella storia, che io sappia […] non è detto, è vero, che Enrico IV amasse segretamente la Marchesa di Toscana?
D. Matilde: No […] Anzi tutt’altro!
Landolfo: […] teme che lo sdegno di lei per questo amore segreto debba agire a suo danno sull’animo del Pontefice
[…] è precisamente detto nella storia, se voi non lo sapete, che il Papa si arrese proprio alle preghiere della Marchesa Matilde e dell’Abate di Cluny.
[…]
Enrico IV: […] questa mia moglie io ho saputo d’averla soltanto dopo […]
[…]
Enrico IV: […] Le condizioni da cui il Papa ha fatto dipendere la revoca della scomunica non han nulla ma proprio nulla da vedere con la ragione per cui mi aveva scomunicato! Dite a Papa Gregorio che ci rivedremo a Bressanone. […] vedremo se mi riuscirà di tenermela stretta accanto, moglie e Imperatrice. Molte fin qui si son presentate […] assicurandomi d’esser lei […] d’essere Berta, dicendomi d’esser di Susa.
[…]
Enrico IV (dettando): Il decreto di pace emanato a Magonza giovò ai meschini ed ai buoni, quanto nocque ai cattivi e ai potenti. […] Apportò dovizie ai primi, fame e miseria ai secondi…

3.1 “Correre a Roma a eleggervi un antipapa; porgere la mano all’alleanza con Roberto Guiscardo. Gregorio VII sarebbe perduto!”
Enrico IV e Gregorio VII.
Come si evince dal precedente paragrafo, Pirandello ha arricchito il suo testo drammaturgico con un numero notevole di informazioni storiche, anche molto dettagliate, incentrate sulla vicenda personale di Enrico IV. La Storia con la “s” maiuscola è in realtà anche più avvincente di un romanzo, e lo lega intrinsecamente ad un altro grande personaggio: papa S. Gregorio VII (1073-1085). Questo venne eletto in seguito alla morte di Alessandro II, quasi per acclamazione, durante la cerimonia funebre del suo predecessore nella Basilica lateranense. L’arcidiacono Ildebrando di Soana (il nome della sua città natale in provincia di Grosseto) venne eletto il 22 aprile del 1073. Sembra volesse quasi sottrarsi alla scelta “per inspirationes”[13] sollecitata dal cardinale Ugo Candido ma, malgrado ciò, venne portato in San Pietro in Vincoli, dove venne elevato alla dignità pontificia. Anche l’ingerenza di Cencio di Giovanni Tignoso, membro dell’aristocrazia romana, ebbe la sua importanza nell’elezione del nuovo pontefice[14].
Figlio di Bonizione e Berta, la sua vita ecclesiastica iniziò grazie allo zio materno, Lorenzo, abate nell’abazia cluniacense di Santa Maria all’Aventino, ma fu anche caro a Giovanni Graziano, arciprete di San Giovanni a Porta Latina, e ne fu cappellano quando questi divenne papa Gregorio VI (1045-1046)[15]. Ildebrando era stato a sua volta collaboratore di altri quattro papi, probabilmente ispirandone mosse politiche e religiose, dopo aver pesato sulle loro elezioni, portando avanti quella riforma della chiesa che, da Papa, avrebbe sostenuto con energia[16]. Probabilmente le sue convinzioni gli derivavano dai Salmi o le attinse dagli scritti di papa Gregorio Magno (cui indubbiamente pensò nel momento della scelta del proprio nome da pontefice) rispetto a quelli, ad esempio, di Sant’Agostino[17]. Ma vi è una nota stonata in merito alla modalità della sua elezione: il decreto di Niccolò II che vedeva riservata la precedenza ai cardinali-vescovi, il Decretum in electione papae emanato pochi anni prima[18], non venne rispettato; cosa che fuaspramente contestata dai suoi avversari e in particolare da Guiberto di Ravenna (futuro antipapa Clemente III)[19].Malgrado ciò, il 22 maggio successivo ricevette l’ordinazione sacerdotale e il 30 giugno la solenne consacrazione.
Gregorio VII è noto per le molte lettere scritte[20]; quasi a trovare l’appoggio per il grande incarico che gli era stato affidato, manifestando la sua intenzione di lottare per la libertà della Chiesa. Tra queste vi sono quelle inviate all’abate Desiderio di Montecassino, all’abate Ugo di Cluny (che ritroviamo citato da Pirandello), a Beatrice di Lorena (madre di Matilde di Canossa) e al re di Danimarca. Ma il nodo cruciale delle sue vicende è legato proprio al potente Enrico IV cui, ormai ventitrenne, aveva notificato la sua elezione, chiarendogli che «non sarebbe stato un Papa malleabile, deciso com’era a mettere ordine nella chiesa, scomunicando i simoniaci e i preti concubini»[21]. A quanto pare nel primo anno e mezzo del suo pontificato, però, non scrisse mai all’imperatore; ma già il 24 giugno 1073 gli faceva recapitare un messaggio attraverso Beatrice e Matilde di Canossa: era pronto a mandargli degli emissari che lo “richiamassero all’amore della chiesa romana” e lo istruissero sulle formalità necessarie per l’incoronazione[22]. Nel caso Enrico IV non avesse accolto queste proposte, ovvero lo avesse disprezzato (“contempserit”), il papa non avrebbe comunque potuto “uscire dal sentiero” (lat. exorbitare) previsto dalla Chiesa Romana[23]. Nella supplex epistola che scrisse a Gregorio VII (agosto 1073), il re si pentiva dei peccati di gioventù, incolpando falsi consiglieri d’influenza negativa e promettendo di migliorare il suo atteggiamento[24]. Ma da una lettera non pervenuta sembrerebbe – a detta del pontefice – che Enrico IV rispondesse con parole “piene di dolcezza e di obbedienza, che né lui nei suoi predecessori avevano mai usato con i pontefici romani” (27 settembre 1073)[25]. Eppure, «come capo dei laici gli incombono particolari obblighi nei confronti delle Chiese: che però consistono nella difesa e nell’incremento delle loro prerogative patrimoniali, non già nelle incombenze di reggerle istituzionalmente»[26]. In altre parole, il re-imperatore era sì il capo dei laici, ma lo era a sua volta e, dunque, con doveri simili a coloro che erano coniugati, che nutrivano la prole e pagavano le decime. Non certo al vertice della cristianità. Secondo Cantarella[27], peraltro, «dietro l’apparente tono conciliante, Gregorio in poco più di due mesi, a poco più di quattro dalla sua elezione, aveva già tracciato le linee del suo quadro. Da una lettera all’altra si compone un insieme coerente ed elaborato, ma infondo abbastanza semplice»[28]. In pratica il papa dettava tempi e modi dell’incoronazione imperiale e l’imperatore, per contro, non doveva intromettersi nel governo della Chiesa. Ma è un gioco di provocazioni, perché «regno e sacerdozio dovevano procedere in concordia e armonia, ma spettava al papa stabilire le condizioni per le quali tale unità di intenti era possibile e realizzabile»[29]. E probabilmente Enrico IV era convinto della supremazia imperiale di cui si sentiva già investito, così, quando il papa diramò il suo primo Concilio, nel marzo del 1074, in cui venivano cacciati dalla Chiesa tutti coloro che erano stati ordinati chierici per simonia, e che chi avesse ottenuto benefici in cambio di denaro, doveva abbandonarli pena la scomunica, la situazione divenne insostenibile. Vi fu anche Agnese, la madre di Enrico IV, tra i membri dell’ambasceria che venne inviata al re tedesco per informarlo di queste decisioni. Ma le cose non andarono come auspicava la donna. In Germania l’alto clero era in subbuglio e circolarono anche minacce di morte da parte del clero sposato, verso quei vescovi e quegli abati intenzionati a far rispettare le nuove imposizioni venute da Roma. Gregorio VII rispose, allora, con un secondo Concilio nel febbraio del 1075, in cui sospese cinque vescovi consiglieri di Enrico IV, che avevano «apertamente frapposto ostacoli all’adempimento della legislazione pontificia in Germania e alla convocazione del Concilio per un controllo delle investiture ecclesiastiche»[30]. Questi: Guarnerio di Strasburgo, Enrico di Spira, Ermanno di Bamberga, Guglielmo di Pavia, Cuniberto di Torino e Liamaro di Brema (gli ultimi due accusati di concubinato) vennero sospesi, mentre Dionigi di Piacenza fu addirittura deposto[31]. Secondo il cronista milanese Arnolfo[32], il sinodo del 1075 vietò al re di interferire nel conferimento degli episcopati e allontanò tutti i laici dalle investiture[33]. Ma c’era stato anche il tempo per minacciare di scomunica Filippo I di Francia, mentre «i condottieri normanni Roberto il Guiscardo e Roberto di Loritello furono direttamente scomunicati in quanto invasori delle terre di San Pietro»[34]; anche se, qualche tempo dopo, il Guiscardo verrà chiamato in aiuto dallo stesso Papa. A loro volta i vescovi reagirono duramente contro i provvedimenti del sinodo del 1075. Liemaro di Brema, uno dei “sospesi”, accusava in una lettera il Papa:
Quest’uomo pericoloso pretende di ordinare ai vescovi tutto ciò che vuole, come se fossero i suoi contadini [villici], e quando essi non gli obbediscono in tutto e per tutto, sono costretti a recarsi a Roma o vengono rimossi dal loro incarico senza attendere la sentenza di alcun tribunale[35].
Il sinodo quaresimale del 1075 segnò una vera e propria svolta nei rapporti tra imperatore e papa, per non parlare del “manifesto” di quest’ultimo: i Dictatus papae («come ogni buona rivoluzione, quella gregoriana ha, infatti, il suo manifesto»[36]) . La nuova concezione della Chiesa e dei suoi rapporti con il papato veniva espressa in ventisette proposizioni che ci sono pervenute all’interno dell’originale del Registro di Gregorio VII, inseriti fra la lettera a Opizone (vescovo di Lodi) e quella a Manasse (arcivescovo di Reims) tra il 3 e il 4 marzo 1075. Sebbene fra gli studiosi vengano interpretate come una serie di massime non destinate alla pubblicazione, i toni sono particolarmente forti. Basti osservare le seguenti:
I. La Chiesa romana è fondata solo dal Signore.
II. Solo il pontefice romano a buon diritto è definito universale.
III. Solo lui può deporre i vescovi o reintegrarli.
IV. È lecito per lui deporre gli imperatori.
XVIIII. Egli non può essere giudicato da nessuno.
XXII. La Chiesa romana non ha mai errato né in perpetuo sbaglierà, come attesta la Sacra Scrittura.
XXIII. Il romano pontefice, se sarà stato ordinato canonicamente, per i meriti del beato Pietro senza dubbio è reso santo.
XXVI. Non sia considerato cattolico chi non è d’accordo con la Chiesa romana.
Così la misura della fede passava per la Chiesa romana, più che per le Scritture e, secondo un principio gravido di futuro (in particolare vista la proposizione n. XXII), trasformando ogni questione teologica in un problema essenzialmente politico, finché «passerà ancora un po’ di tempo, ma poco!, e si arriverà a dire direttamente che il dissenso della Chiesa romana e la disobbedienza equivalgono all’eresia»[37]. Il papa poteva istituire nuove leggi e stabilire la canonicità di un libro, ad esempio; così diventava la misura e la fonte primaria del diritto canonico e, facendo leva sul tradizionale strumento della tradizione cristiana, la rivoluzione si serviva anche della santità: “per i meriti di San Pietro il Papa è reso santo, senza ombra di dubbio” (proposizione n. XXIII). E se il concetto fondamentale del Dictatus papae è la supremazia della Chiesa di Roma e del suo vescovo sulle altre Chiese, ciò si basa in pratica anche sulla donazione di Costantino[38]. Solo il Papa può conferire le insegne imperiali. Solo a lui spetta il diritto di deporre gli imperatori. E naturalmente solo lui ha il diritto di conferire le cariche ecclesiastiche o condannare vescovi indegni in qualità di rappresentante di Cristo in terra e successore di San Pietro, secondo la potestà di “sciogliere e legare” concessa all’apostolo da Cristo. A questo punto Enrico IV si ritrovava in una situazione completamente capovolta: non era più lui a poter eleggere il Papa, ma il Papa a nominare e deporre l’imperatore. Anche se in seguito alla sospensione dei cinque consiglieri reali Enrico IV acconsentì a sciogliere i rapporti con essi e, nel maggio 1074, fece atto di penitenza a Norimberga giurando obbedienza al papa e promettendo l’appoggio alla riforma della Chiesa, il suo atteggiamento mutò ben presto, per perseguire l’obiettivo di riaffermare il suo potere[39]. Nel 1075 Gregorio VII lanciò un anatema contro l’investitura degli ecclesiastici da parte dei laici, come peccaminosa. Questo fu il momento di svolta nei rapporti tra il pontefice e la corte tedesca[40]. Noncurante di tali dichiarazioni, nel settembre dello stesso anno, Enrico IV investì l’arcivescovo di Milano, nominò i vescovi di Fermo e di Spoleto e appoggiò apertamente l’arcivescovo di Ravenna, Guiberto, con l’obiettivo di crearsi una rete di alti ecclesiastici fedeli; una sorta di partito di opposizione in seno al clero italiano avverso al pontefice, che trovava proseliti persino a Roma. Per gli studiosi questo è l’inizio della famigerata “lotta per le investiture” [41]. La lettera di Gregorio VII in risposta all’insubordinazione di Enrico IV lo esortava a obbedire:
«Il vescovo Gregorio, servo dei servi di Dio, al re Enrico, manda in saluto la benedizione apostolica, a patto tuttavia che obbedisca, come si conviene a un re cristiano, alla Sede Apostolica».[42]
Si arrivò ad una congiura guidata ai vertici ecclesiastici da Guiberto e Ugo Candido (il cardinale Ugo di Remiremontera divenuto nemico di Gregorio anche se anni prima aveva contribuito a farlo eleggere). La notte di Natale del 1075 il prefetto Cencio entrò in Santa Maria Maggiore mentre il Papa stava celebrando la messa e, una volta all’altare, atterrò e ferì il Papa, portandolo via aprendosi un varco tra la folla, con una banda di armati, e rinchiudendolo in una torre. Il popolo indignato, dopo le prime ore di sbandamento e terrore, reagì e riuscì a liberarlo[43]. Uscito, Gregorio calmò la folla che avrebbe voluto uccidere il Cencio, invitandola al perdono. Tornò quindi in Santa Maria Maggiore e riprese a celebrare la messa dal punto in cui l’aveva interrotta[44].
La forza di Enrico IV derivò probabilmente da questo episodio e dalla convinzione che il pontefice non avesse più il favore dei romani. Convinzione rafforzata dal fatto che Roberto il Guiscardo non avrebbe difeso il papa che l’aveva appena scomunicato. Convocò, dunque, un concilio dei vescovi della Germania a Worms il 24 gennaio 1076. Durante il concilio Ugo Candido formulò una serie di accuse nei confronti del papa che vennero accolte favorevolmente dall’assemblea e, nella dichiarazione conclusiva, si affermò che Gregorio VII non poteva essere considerato un papa legittimo. I vescovi tedeschi non accettavano più l’imposizione di obbedienza nei suoi confronti e, con una lettera da parte di Enrico VII, lo deponevano[45]:
«Enrico, re, non per usurpazione, ma per giusta ordinanza di Dio, a Ildebrando, che non è più il papa, ma ora è un falso monaco […] Tu che tutti i vescovi ed io colpiamo con la nostra maledizione e la nostra condanna, dimettetevi, lasciate questa sede apostolica che vi siete arrogati. […] Io, Enrico, re per grazia di Dio, vi dichiaro con tutti i miei vescovi: discendi, discendi!»[46]
L’espressione “falso monaco” dovette colpire certo Luigi Pirandello, visto che alla fine del Primo atto del suo Erico IV fa dire al protagonista: “ventisette vescovi tedeschi e lombardi firmeranno con me la destituzione di Papa Gregorio VII: non Pontefice, ma monaco falso!”. Ma tornando alla sentenza, si faceva riferimento ad un passo della lettera ai Galati: «se qualcuno vi predica un Vangelo diverso da quello che avete ricevuto, sia anatema!» (Gal. 1, 6-12), insinuando così che Gregorio potesse essere equiparato ai falsi profeti[47]. E non mancarono anche i pettegolezzi su frequentazioni intime con alcune donne, forse con riferimento ai rapporti con la contessa Matilde di Canossa[48].

Enrico IV si sentiva autorizzato a ritenere il Papa indegno del soglio pontificio e gli inviava una dichiarazione di disobbedienza sottoscritta dai vescovi germanici, che venne approvata anche da quelli lombardi riuniti a Pavia e Piacenza[49]. A questa il Papa rispose convocando, il 22 febbraio 1076, un concilio in Laterano alla presenza dell’imperatrice Agnese e di Matilde di Canossa, con cui scomunicava Enrico IV e i vescovi ribelli (tra questi anche l’arcivescovo di Magonza Sigfrido I). E allo stesso tempo scioglieva i suoi sudditi dai giuramenti di fedeltà prestati a suo favore.
Non vi erano precedenti storici. Ciò ribaltava l’abitudine di avere dei papi deposti dagli imperatori, mentre il contrario non si era mai visto. La cifra della rivoluzione gregoriana risiede in questo ribaltamento e insieme con essa «la forza dell’ideologia che la sorreggeva, la sua carica oggettivamente eversiva»[50].
I principi avversari di Enrico IV, insieme ai vescovi, approfittarono della scomunica e dello scioglimento per i sudditi degli obblighi di fedeltà al sovrano. Procedettero, quindi, ad una nuova elezione per soppiantarlo con una prima assemblea a Tribur (16 ottobre 1076) che si concluse in modo interlocutorio, perché l’imperatore si impegnava a riappacificarsi con il Papa. I principi lo costringevano a chiedere perdono al papa e impegnarsi all’obbedienza, facendosi revocare la condanna entro un anno e un giorno dalla sua scomunica (ovvero entro il 2 febbraio seguente), oppure il trono sarebbe stato considerato vacante. In una seconda assemblea (gennaio 1077) ad Augusta, presieduta dal Papa in persona, Enrico IV avrebbe rischiato che i Principi eleggessero un nuovo re al suo posto, approfittando della scomunica[51]. Quindi non aveva scelta, doveva impedire al Papa di arrivare in Germania, oppure andargli incontro. E così fece: scese in Italia dal passo del Moncenisio, e saputo che il Papa si trovava presso il castello di Canossa (sugli Appennini vicino a Reggio Emilia), in pochi giorni lo raggiunse per «tentare di uscire dall’impasse in cui era caduto»[52]. Il cronista Lamberto di Hersfeld[53] descrisse quel drammatico viaggio, durante un inverno particolarmente severo, in cui «la famiglia reale scalò il passo con un piccolo seguito; gli uomini strisciavano su mani e ginocchia o stavano sulle spalle delle guide, la regina e le sue dame venivano trascinate sul ghiaccio su pelli di vacca, la maggior parte dei cavalli morì o rimase gravemente ferita»[54]. Presso il castello di Canossa, oltre alla padrona di casa vi dimoravano anche la marchesa Adelaide di Susa, esponenti dell’alta aristocrazia del regno italico e l’abate Ugo di Cluny, padrino di battesimo dell’imperatore. Sebbene Enrico IV godesse di un’oggettiva posizione di vantaggio, il 25 gennaio 1077 arrivò alle porte del castello di Canossa e, da una lettera scritta dallo stesso pontefice a pochi giorni dai fatti, apprendiamo che il re:
«rimase tre giorni davanti al portone del castello, dopo essersi spogliato di tutte le insegne regali, in misero abbigliamento, a piedi nudi e vestito di lana. Qui non smise di supplicare, molto piangendo e impetrando l’aiuto e il conforto della misericordia apostolica, fino a quando tutti i presenti, sentendo quelle invocazioni, furono talmente ricolmi di compassione e di pietà, che presero a intercedere in suo favore presso di noi con innumerevoli suppliche e lacrime, meravigliandosi della nostra inconsueta durezza e del nostro atteggiamento irremovibile. […] Alcuni presero a dire che il nostro comportamento non denotava tanto la fermezza di un pontefice severo quanto la crudeltà di un violento tiranno. Spinti a cedere sia dall’insistente manifestazione del suo rimorso che dalle suppliche di tutti i presenti, lo abbiamo infine liberato dal vincolo dell’anatema e riammesso alla grazia della comunione, facendolo ritornare nel grembo di Santa madre Chiesa, dopo aver ottenuto da lui tutte le assicurazioni riportate di seguito»[55].

La fermezza di Gregorio VII si stava trasformando in tracotanza agli occhi di chi osservava «colui che avrebbe dovuto insegnare a tutta la cristianità il perdono e la mansuetudine del buon padre, ma che di ora in ora andava assumendo le fattezze di un tiranno violento e senza cuore»[56]. Quando al terzo giorno il papa ricevette Enrico nella cappella del castello, e ascoltò la sua richiesta di perdono, con una solenne cerimonia lo rimise nella comunità dei fedeli e gli somministrò la comunione. Il re umiliato affermava di accettare le condizioni papali, giurava di discolparsi alla dieta di Augusta e di sottomettersi all’autorità papale e, appena rientrato in Germania, cercò di riguadagnarsi quel trono fortemente compromesso. La maggior parte dei principi, nonostante la revoca del Papa, non lo volevano più e si riunirono a Forchheim (15 marzo 1077) dove elessero suo cognato Rodolfo, il duca di Svevia[57]. Enrico riuscì comunque a sconfiggerlo in due battaglie, ma il Papa gli contestava di aver impedito, a suo tempo, la convocazione dell’assemblea di Augusta e non esser stato fedele al giuramento fatto a Canossa. Così nel concilio romano del 7 marzo 1080 lo scomunicò di nuovo, confermando re Rodolfo. A questa seconda scomunica Enrico reagì convocando, a sua volta, un concilio dell’episcopato germanico a Brixien (25 giugno 1080) mettendo sotto accusa il Papa, giudicato da Ugo candido come un assassino, simoniaco ed eretico. Gregorio VII venne deposto e fu eletto l’arcivescovo di Ravenna Giberto papa con il nome di Clemente III (da considerarsi antipapa). Gregorio non poteva più contare su Matilde di Canossa e non gli rimase che affidarsi ai Normanni, da tempo vassalli della chiesa. Lo stesso Roberto il Guiscardo, già scomunicato per aver invaso il territorio papale di Benevento, veniva chiamato tramite l’intermediario abate di Montecassino, Desiderio. Il 29 giugno 1080 a Ceprano Roberto venne riammesso nella comunità dei fedeli e ottenne il territorio già conquistato. In questo modo la Chiesa rinunciava definitivamente al territorio del sud e i Normanni divenivano, così, vassalli del papato, tenuti a garantire aiuto alla Chiesa per «mantenere, acquisire e difendere i regalia di San Pietro e i suoi possessi […] e a mantenere sicuramente e onorificamente il papato romano»[58]

Il 15 ottobre dello stesso anno Enrico IV sconfisse in una battaglia sulle rive del Elster Rodolfo, uccidendolo. Ciò nonostante, il popolo e i Principi seguitavano ad essergli contrari. Nonostante l’antipapa Clemente III avesse anche scomunicato Gregorio VII, Enrico IV dovette andare a Roma per conquistarla ed eliminare il suo nemico. Nel febbraio dell’anno seguente arrivava, così, fin sotto le mura aureliane e riusciva a corrompere Giordano di Capua, neutralizzando indirettamente un eventuale intervento del Guiscardo. Dopo un mese di assedio i romani riuscirono a far ritirare Enrico, che tornerà a Roma due anni dopo, riuscendo, questa volta, ad impossessarsi della città Leonina costringendo Gregorio a rifugiarsi in Castel Sant’Angelo. Il 21 aprile 1082 entrava solennemente in Roma e gli aiuti del Guiscardo al papa non arrivarono. Molti vescovi lombardi riconobbero come Papa Clemente III. All’inizio del 1083 Enrico IV tornava a Roma entrando tranquillamente da Porta San Giovanni, ignorando Gregorio VII asserragliato in Castel Sant’Angelo, mentre, il 24 marzo 1083, Clemente III veniva consacrato papa e, dieci giorni dopo, Enrico IV si faceva incoronare imperatore.

È a questo punto che, avvertito da Desiderio di Montecassino, è minacciato da Roberto il Guiscardo, arrivato con due anni di ritardo in aiuto del Papa. Il 21 maggio abbandonava Roma, mentre i Normanni entravano da Porta San Giovanni il 27 maggio, compendo un vero e proprio massacro nei confronti dei romani. La notte del 30 maggio dal Colosseo al Laterano un immane incendio devastò ogni cosa. I saccheggi e le distruzioni furono peggio di quelle del sacco dei Goti del 410 e di quello lanzichenecco del 1527. A questo punto Gregorio non poteva rimanere a Roma e divenne suo prigioniero anche se da lui “ospitato” a Salerno; mentre Clemente III s’insediava a Roma senza problemi. Moriva alla mercé di un vassallo, il 25 maggio del 1085, nella chiesa di San Matteo a Salerno.

A quell’epoca l’epoca l’imperatore aveva trentacinque anni. La sua intensa vita era iniziata con un rapimento da bambino, quando, rimasto orfano di padre a soli sei anni (1056), era stato affidato alla debole madre Agnese, la cui stirpe aveva fondato il monastero di Cluny[59]. La congiura del 1066 vedeva tra i suoi protagonisti Annone di Colonia, il duca Ottone di Northeim, ma anche un cugino del re; questi lo attirarono su una barca e lo portarono a Colonia. L’arcivescovo di Brema, Adalberto, assume il governo dello Stato in nome del giovane principe. Gli stessi “principi rapitori” vengono nominati dal drammaturgo agrigentino, così come Berta di Susa e sua madre Adelaide. A sedici anni, infatti, Enrico IV aveva sposato Berta di Savoia (anche detta di Torino e di Susa), dopo un fidanzamento combinato dal padre (Enrico III) quando aveva solo cinque anni – e lei quattro – per garantire, con tutta probabilità, un contrappeso ai margravi di Tuscia della stirpe dei Canossa[60]. Casata, questa, che all’epoca era nelle mani dei genitori di quella Matilde di Canossa dove, nel gennaio 1077, avviene la famosa “umiliazione”. In seguito alla morte di Gregorio VII, le vicende dell’imperatore e di altri “personaggi” significativi nella sua vita, non furono meno rilevanti. Nel sinodo di Bressanone (giugno 1080) fu eletto l’anti-papa di Clemente III e, qualche mese dopo, nella battaglia di Volta Mantovana le milizie imperiali sconfissero le truppe comandate dalla stessa Matilde di Canossa , intente a cacciare quell’antipapa. Nel 1087, Enrico IV faceva incoronare il figlio Corrado re ad Aquisgrana e, nello stesso anno, moriva sua moglie Berta. La donna dalla quale avrebbe voluto divorziare e per cui Pier Damiani venne mandato in Germania, nel 1069. Pur avendo, quest’ultimo, abbandonato da tempo il cardinalato per dedicarsi alla vita dell’eremo, veniva inviato da Alessandro II nel tentativo di distogliere il re da quell’intenzione. L’avellanita, discepolo dell’asceta ed eremita Romualdo di Ravenna[61], aveva già incontrato il padre di Enrico IV (nel 1046), imprimendo «una sensibile svolta nella sua riflessione sul potere politico come strumento di rigenerazione della cristianità»[62]. Ma cifra della proposta monastica di Pier Damiani la si ritrova in una sua frase secondo cui Romualdo «voleva trasformare tutto il mondo in un eremo e radunare tutta la moltitudine del popolo all’interno dell’ordine monastico»[63]. La sua attività riformatrice, prima ancora di quella di Gregorio VII, si rispecchia, quindi, in una poderosa produzione di lettere, sermoni, agiografie e testi liturgici, che non ha eguali per qualità e quantità nel secolo XI[64]. In questi è evidente la funzione normativa delle vitae, che consentivano di proiettare verso l’esterno i valori di riferimento elaborati e vissuti all’interno delle comunità[65]. Colpisce – dunque – che Pirandello lo menzioni con tale forza, come nemico del suo protagonista.
Il 14 agosto 1089 Enrico IV sposava Adelaide di Kiev a Colonia, ma la donna verrà poi ripudiata e perseguitata sotto gravi imputazioni[66]. Tra gli ultimi, salienti, avvenimenti che lo riguardano, nella primavera del 1093, suo figlio primogenito Corrado gli si ribellava, facendosi poi incoronare re d’Italia a Milano. Proprio mentre marciava contro il figlio, dopo una breve malattia, Enrico IV moriva il 7 agosto 1106.
4. Conclusioni
Non si può certo negare che Luigi Pirandello conoscesse bene le vicende storiche legate ad Enrico IV. Lo dimostrano i numerosi riferimenti storici che si ritrovano nel testo, anche in modo dettagliato (Cap. 2.2), perfettamente coerenti con la Storia (Cap. 3.1). Il motivo è da ricercarsi, a mio avviso, nel fatto che Pirandello conosceva bene laGermania, perché da giovanissimo studente frequentò l’università di Bonn, su consiglio del proprio maestro di filologia romanza. Ed è nella città renana che il futuro Nobel per la letteratura si laureò (con una tesi in fonetica e morfologia sulla parlata di Girgenti, sua città natale). Tra il 1890 e il 1909, lo studioso Gerold Meyer von Knon aveva pubblicato l’opera il sette volumi: Jahrbücher des deutschen Reiches unter Heinrich IV und Heinrich V, che divenne «da allora fondamentale per lo studio del regno del salico»[67]. Dunque, conoscendo un capitolo importante della Storia di quella nazione, Pirandello decise di farne lo sfondo per la sua opera di fine ’21. Nel mese di settembre, poco prima di accingersi alla stesura effettiva del dramma (che lo occupò fino a novembre), scrisse una lettera al grande attore Ruggero Ruggeri, auspicando che potesse essere lui il personaggio principale della sua nuova opera. Nella lettera gli sintetizza la trama sottolineando che sarebbe stata:
«d’una veramente insolita profondità filosofica ma viva tutta in drammaticità piena di non meno insoliti effetti […] colui che tutti credono pazzo, in realtà da anni non è più pazzo, ma simula filosoficamente la pazzia per ridersi entro di sé e degli altri che lo credevano pazzo e perché si piace in quella carnevalesca rappresentazione che dà a sé e agli altri della sua “imperialità” in quella villa addobbata imperialmente come una degna sede di Enrico IV […]» [68]
Pirandello, da una parte, sceglie un personaggio che è al di sopra degli altri in quanto re, ma, dall’altra, non rinuncia ad uno sfondo sentimentale sfruttando la storica figura di Matilde di Canossa. A questo punto può citare altri personaggi realmente esistiti nella Storia: dalla moglie Berta che gli venne imposta (e, quindi, non amata), alla madre di questa (Adelaide), a Pier Damiani (nel dramma chiamato Pietro Damiani), che storicamente gli impediva di amare un’altra donna. Pirandello escogita, però, un amore mai storicamente provato (e lo dice anche nel suo testo), facendo leva su un episodio molto noto come “l’umiliazione di Canossa”, in cui – apparentemente – non solo si umiliava davanti al Papa, ma anche davanti a colei che ospita il suo nemico. Quell’umiliazione diventa un’umiliazione universale, quella che può intimamente vivere ogni uomo. E l’evento storico ha già in sé tutta la teatralità necessaria.
Ma va detto che uno sfondo storico non era, a inizio Novecento, così inusuale. Vi era un filone di drammi storici che venivano rappresentati e andava molto di moda. Probabilmente Pirandello lo riteneva di per sé un inganno, paccottiglia. Da La cena delle beffe[69] di Sem Benelli, ai drammi di D’Annunzio, a Una partita a scacchi[70] di Giacosa (Fig. 2). Per dileggiare queste rappresentazioni che intrise di spirito Romantico, il girgentino propone una “mascherata”. Prende in giro i contemporanei, la classe borghese che amava questo genere di “rievocazioni storiche” in cui poteva vestirsi con costumi d’epoca. Lo smacco è palese. Nel testo fa dire al suo Enrico che quella messinscena andava avanti da ben dodici anni. La sua finta follia e, quindi, il protrarsi di quella “carnevalata” (Cifr. Enrico IV), sottolinea sia l’adagiarsi in una finzione che estranea dal mondo reale, sia quanto quelle rappresentazioni storiche, così di moda, facessero leva sulla fantasia per estraniarsi dalla vita vera. Il suo Enrico deve attenersi a quell’idea, a quel gioco. E resta inchiodato là, in una posizione che, però, gli permette di guardare dall’alto in basso – o dal di fuori della sua condizione di “mascherato” da folle – il resto della società. L’allusione implicita a quel mondo che l’ha fatto cadere da cavallo (a sua volta metafora), è ad un mondo che – così ancora oggi, a distanza di un secolo – è attratto da un “medievalismo inconscio” che affonda le sue radici romantiche nella rivisitazione cavalleresca del medioevo[71]. L’uomo senza nome che si crede Enrico IV una volta rinsavito, volontariamente sceglie di fingersi pazzo e di crearsi da sé quel contenuto solo presupposto dagli abiti antichi[72], affidandosi non solo all’immaginazione, ma, questa volta, anche alla solitudine.
Mesi prima i Sei personaggi di Pirandello era stato un fiasco[73], al grido di «Manicomio! Manicomio!»[74] e, ora, Enrico IV veniva scritto per apparire come la sua negazione e l’abiura; o come un atto di umile omaggio e quasi penitenza, dedicato al pubblico[75]. Pirandello replica con sottile ironia mettendo in scena un manicomio in costume e, al caos strutturale dell’opera precedente, risponde con l’ordine della forma più classica dell’antico teatro: la tragedia[76]. Ma di questo Medioevo o, meglio, del medievalismo, Pirandello si serve – a mio avviso – anche con un altro intento. È noto che non sia mai venuto a contatto con la psicanalisi freudiana, ma sono innegabili il suo interesse e il suo studio verso l’interiorità umana. Con echi colti e raffinati Enrico IV è il personaggio ideale per far parlare in termini di ricerca introspettiva. L’imperatore ha vissuto un evento straordinario, già in sé teatrale, a Canossa, e un personaggio storico così interessante è quel che serve per porre la nostra attenzione sulle sue parole. La Storia in Pirandello è al servizio della comunicazione poetica. Il re che si è addirittura “umiliato” è l’eroe solitario antagonista di una società oziosa, incolta e prepotente che non si rende conto delle sue stesse menzogne. In una battuta Enrico IV definisce Matilde, Belcredi e il dottore: “una baldracca, un sudicio libertino, un impostore”. Mentre fa apparire la madre storica (Agnese di Poitou) – come sempre nella fantasia ossessiva pirandelliana – una santa[77]: «se non è partita da voi l’oscena voce che la mia santa madre, Agnese, abbia illeciti e rapporti col vescovo Enrico Augusta!» (Cit. Enrico VI).
Dopo tutti quegli anni di solitudine, mostrandosi come lo storico Enrico IV, il protagonista è totalmente immerso nel mondo medievale. Oramai sa tutto! Quella Storia prima futile e giocosa è diventata concreta. Conosce ogni episodio delle vicende storiche che gli appartengono e lo rivestono come un “perdente”, nel primo atto, nella “sala del trono”, dove, entrando «veste sopra l’abito regale un sajio da penitente, come a Canossa» (Cit. Enrico VI). Ma nel secondo atto è in abito regale ed è un eroe in qualche modo positivo, che sceglie l’autoemarginazione come risposta polemica a una realtà soffocante e falsa[78]. Fino all’epilogo, drammatico, con cui è costretto – dopo aver ferito mortalmente Belcredi – a fingersi folle “per sempre”[79].
Ma la prospettiva potrebbe essere ribaltata. E se Enrico IV avesse ucciso perché vuole rimanere nella clausura di quel mondo?
NOTE:
[1] Febbraio/marzo 2020. Enrico IV di L. Pirandello. Regia di Antonio Calenda. Teatro Basilica, P.za di Porta S. Giovanni, 10, Roma.
[2] Vedi la voce Herlitzka Roberto (Torino, 1937), attore, nell’enciclopedia Treccani.
[3] Suocera di Enrico IV di Franconia.
[4] Questo il tempo medio della messinscena. In alcuni casi posso essere state fatte scelte registiche di adattato del testo, eliminando o comunque accorciando certe parti ritenute “troppo storiche”. In altri casi è stato scelto di realizzare un unico atto, per evitare di allungare i tempi con le due pause previste.
[5] U. Longo, Pier Damiani, in Dizionario Biografico degli Italiani, Ist. dell’Enciclopedia italiana, Roma, 2005, vol. 83, pp. 303-12;
[6] Rif. nota 1.
[7] Non a caso è sorto il termine “pirandelliano”, che porta in sé l’accezione di complesso, spesso paradossale, ma anche ambiguo per l’impossibilità di distinguere realtà e finzione.
[8] Qui e adesso.
[9] C. Molinari, Storia del Teatro, Laterza, Bari, 1972, p. 21;
[10] Aristoteles, Poetica, a cura di D. Lanza, BUR, Milano, 2009;
[11] Ivi.;
[12] R. Alonge, Introduzione, in Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Enrico IV, a cura di Roberto Alonge, Mondadori, Milano 1993, pp. v-xxxix, riferimento p. xxii;
[13] C. Rendina, S. Gregorio VII, in I papi, Newton Compton, Roma, 1983, p. 386;
[14] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Carrocci editore, Roma, 2020, p. 146;
[15] Gregorio VII nella voce Treccani;
[16] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., 386;
[17] P. Milza, Histoire de l’Italie, Fayard, 2005, p. 209;
[18] 1059.
[19] M. Montanari, Storia Medievale, VII ed. Laterza, 2006, p.139;
[20] Scrisse ben 438 lettere.
[21] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., 386;
[22] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 114;
[23] Das Register Gregors VII, Ed. E. Casper, Berolini, 1955, p. 19;
[24] Die Briefe Heinrichs IV., ed. Carl Erdmann (MGH Dt. MA 1, 1937) Nr. 5;
[25] Das Register Gregors VII, Cit., p. 42;
[26] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. La rivoluzione di Gregorio VII papa. 1073-1085, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 106;
[27] Vedi la voce G. M. Cantarella (1950), medievalista.
[28] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. Cit., p.105;
[29] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 115;
[30] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., p. 387;
[31] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 125;
[32] Vedi la voce: Arnolfo (1030 c. – 1080 c.), scrittore e presbitero, nell’enciclopedia Treccani.
[33] Arnulf von Mailand, Liber gestorum recendium, Hannover 1994, p. 212;
[34] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 125;
[35] Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV, Weimar, 1950, p. 34;
[36] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 126;
[37] G. M. Cantarella, Gregorio VII, Salerno, Roma, 2018, p. 163;
[38] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., p. 388;
[39] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. Cit., p.144;
[40] E. Duffy, La grande storia dei papi: santi, peccatori, vicari di Cristo, Milano, Mondadori, 2001, p. 154;
[41] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. Cit., p.147-148;
[42] Ivi., p.148;
[43] Ivi., p.150;
[44] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., p. 388;
[45] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. Cit., p.138-139;
[46] Ivi., p. 139;
[47] Ivi., p. 139;
[48] Ivi., p. 156-157;
[49] C. Rendina, S. Gregorio VII, Cit., p. 389;
[50] Ivi., p. 134;
[51] Ivi., p. 136;
[52] Ivi., p. 136;
[53] Lampert von Hersfeld, Annalen, 1077;
[5] I. Stuart Robinson, Henry IV of Germany, 1056-1106, Cambridge University Press, Cambridge, 2008, p. 160;
[55] Das Register Gregors VII, Cit., p. 312-3
[56] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 137;
[57] G. M. Cantarella, Il sole e la luna. Cit., p.185;
[58] Ivi., p. 232-235;
[59] I. Stuart Robinson, Henry IV of Germany, Cit., p. 20;
[60] Ivi., p. 43;
[61] P. Damiani, Vita beati Romualdi, “Fonti per la Storia d’Italia”, 94, ed. G. Tabacco, Istituto Storico Italiano per il Medioevo, Roma, 1957;
[62] N. D’Acunto, La lotta per le investiture, Cit., p. 32;
[63] P. Damiani, Vita beati Romualdi, Cit., cap. 37, p. 78 in L. Saraceno “Trasformare il mondo in un eremo”, 2009;
[64] U. Longo, Pier Damiani, Cit., 2005, con ampia bibliografia;
[65] U. Longo, Pier Damiani, la santità e la riforma del secolo XI, Viella, Roma, 2012, pp. 58-64;
[66] G. Sorzano, Enrico IV, Enciclopedia Treccani, 1932;
[67] R. Schieffer, Gerold Meyer von Knonaus Bild von Heinrich IV. In: Gerd Althoff (Hrsg.): Heinrich IV. Ostfildern, 2009, S. 73-86, hier: S. 77;
[68] Lettera del 21 settembre 1921 di Luigi Pirandello a Ruggero Ruggeri, riportata in L. Ridenti, Teatro italiano fra le due guerre 1915-1940, Dellacasa, Genova ,1968, pp. 37-38;
[69] Dramma in quattro atti del 1909, con un’ambientazione nella Firenze di Lorenzo il Magnifico.
[70] Opera teatrale che andò in scena la prima volta nel 1873, ambientata in un castello valdostano nel XIV secolo.
[71] R. Bordone, La lunga sopravvivenza della cavalleria medievale. Un viaggio a ritroso nella cultura e nel gusto dell’Occidente, Università degli studi di Torino, 2009, p. 541;
[72] U. Artioli, “Enrico IV”, ovvero la tragedia del settimo personaggio, Angelo di fuoco, II, 3 (2003), p. 62
[73] 9 maggio 1921, Teatro Valle, Roma.
[74] S. Brunetti, Enrico IV ovvero il potere salvifico dell’immaginazione, in “Scritture della performance”, Vol. 4, n. 2, Università degli Studi di Torino, 2015, p. 23;
[75] R. Alonge, Introduzione, in Luigi Pirandello, Cit., p. xxii;
[76] Ivi., p. xxii;
[77] Ivi., p. xxx;
[78] Ivi., p. xxxviii;
[79] L. Pirandello, Enrico IV, Roma, 1921; ultima battuta dell’ultimo atto.
Bibliografia
- R. Alonge, Introduzione, in Luigi Pirandello, Sei personaggi in cerca d’autore. Enrico IV, a cura di Roberto Alonge, Mondadori, Milano 1993;
- Aristoteles, Poetica, a cura di D. Lanza, BUR, Milano, 2009;
- U. Artioli, “Enrico IV”, ovvero la tragedia del settimo personaggio, Angelo di fuoco, II, 3 (2003);
- R. Bordone, La lunga sopravvivenza della cavalleria medievale. Un viaggio a ritroso nella cultura e nel gusto dell’Occidente, Università degli studi di Torino, 2009;
- Briefsammlungen der Zeit Heinrichs IV, Weimar, 1950;
- S. Brunetti, Enrico IV ovvero il potere salvifico dell’immaginazione, in “Scritture della performance”, Vol. 4, n. 2, Università degli Studi di Torino, 2015;
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Manola Plafoni, saggio scritto nel mese di gennaio 2022














