
L’evoluzione storica dell’idea di montagna, dal medioevo al medioevo attuale.
Il ricordo più brutto, più spaventoso, inquietante, terribile e non saprei quali altri aggettivi aggiungere, è quello della notte della tempesta di vento. Un vento fortissimo che durò per molte ore ed ululava nel buio, minacciando distruzione e morte. No, non sto esagerando. Pensavo proprio a questo quella notte, abbracciata a mia madre, attaccate ad un muro portante, mentre l’intestino mi si contorceva e m’aggrappavo ad una serie perpetua di Ave Maria.
Riporto quest’esperienza personale perchè so che coincide in buona parte con quella provata da altre persone in questa valle, così come in altre località, durante la tempesta Vaia o durante altre tempeste di vento. Questo estremo evento naturale, paragonabile per intensità e devastazione alle tempeste in mare aperto, alle eruzioni vulcaniche, ai terremoti, alle alluvioni, sono – tra l’altro – comune denominatore di un preciso movimento culturale e artistico: il Romanticismo. Ma occorre un attimo di attenzione, perchè non significa esattamente quel sentimento a tratti sdolcinato che intendiamo correntemente. Ha la sua origine nel termine inglese “romanzesco” e, in questo senso, indica il non reale, la finzione dei romanzi cavallereschi medievali, con un’accezione – in verità – positiva che si lega a ciò che viene inteso come pittoresco e – per questo – qualità piacevole, qualità oggettiva della natura, ma anche sentimento: la commozione per il tempo che passa inesorabilmente. E non è tutto. C’è un’altra, nuova, categoria estetica: quella del Sublime. Un aggettivo potente che si lega proprio alla natura, nelle sue varie forme e nelle sue spettacolari manifestazioni. Questa volta quelle terribili, contorte, aggrovigliate, così come sono i rami secchi degli alberi che si protraggono in una danza macabra verso il cielo, le radici secolari che fuoriescono dalla terra nodose e scure, le rocce aguzze, il muschio umido, le cascate, il ghiaccio, e molto, molto altro ancora. Kant parla di “alte querce sublimi”; così come sublime – per lui – è la notte. E allora c’è qualcosa di diverso, qualcosa che sta cambiando. Questo “sublime” deriva dal conflitto tra sensibilità e ragione, e produce un sentimento forte: un mix di sgomento e piacere.
Occorre, tuttavia, fare un ulteriore passo indietro e da quel periodo romantico a cavallo tra XVIII e XIX secolo, cui mi sto riferendo, ridiscendere di almeno un altro centinaio di anni. Fino al Settecento le montagne non esistevano. Sulla carta e nei fatti. Non avevan nome. E ciò che non ha nome: non esiste. Macchie bianche o coni informi le rappresentavano. Non eran altro che un pericolo e un limite. E allora quando gli imperatori del nord Europa discendevan verso l’Italia, eran costretti ad attraversare le Alpi non senza difficoltà. Solo passi e valichi come unica alternativa. E grazie a chi ne conosceva i segreti! Certo le montagne han costituito – e lo sono in buona parte tutt’ora – un confine naturale, una linea di demarcazione. Per non parlare del senso di colpa che suscitano nei suoi abitanti. Uomini più vecchi della loro età, testardi, sospettosi per via del locus che abitano, che non prevede aperture né geografiche, né culturali. Che cercan di lavorare, coltivare, allevare… ma con grande fatica e, più facilmente accrescendo miseria e malattie. Uomini che fan inevitabilmente i conti con le limitazioni imposte dal territorio e – quindi – proprio dalla natura. E nel domandarsi perchè di tanta tribolazione in quelle condizioni disagiate, con tre quarti d’anno in cui imperversano il freddo e meno ore di luce al giorno di quelle che spetterebbero, il pensiero non può che essere quello di una punizione divina. Il senso di colpa intrinseco nell’esistenza delle genti di montagna, come peccato originale. Un castigo ereditato dalla nascita.

É comunque difficile un discorso meramente concettuale. Se esistono paletti storici cui fare il giro di boa – come il 1786, quando Packard, Balmat e De Susur compiono la prima scalata del Monte Bianco – tracciare i confini di un clima ideologico e culturale mutato, resta velleitario. Prendiamo comunque la seconda metà del Settecento come area temporale in cui collocare questa diversa mentalità. Ecco, ora inizia la Storia dell’alpinismo, inizia la Storia della botanica in vera chiave scientifica. Pensiamo allora agli uomini di scienza che vennero in Valle Pesio a ricercare ed erborizzare proprio da quel periodo e nei secoli successivi; uno su tutti, il naturalista inglese Clarence Bicknell che scriveva al botanico ginevrino Emile Burnat del Cypripedium calceolus (la splendida orchidea chiamata anche “scarpetta di Venere”). Sebbene già nel 1796 il monaco Ugo Maria Cumino l’avesse segnalata, in anni in cui prendevano piede le comunità scientifiche e le Accademie, risentendo del fascino della prestigiosa Accadémie des sciences di Parigi; addirittura fondata centotrenta anni prima.
Se verso la fine del Settecento le montagne sono finalmente sotto una nuova luce, considerate come le grandi opere della natura, questo è frutto di una mentalità diversa. Estremamente diversa. Perchè finalmente esistono anche per la cultura e non son più esecrate, dannate o demonizzate come rifugio per mostri e streghe. Non vi albergan più nemmeno creature diaboliche, su quelle pendici che parevan luoghi maledetti e irti di pericoli. Se pensiamo al lato orientale delle Alpi, la Contea del Tirolo, con i suoi predoni, non era certo un’area montana da varcare con semplicità. Ma soprattutto, ciò che va modificandosi, con la nuova visione delle montagne, è che queste non son più viste in stretta connessione biblica, come personificazione ideologica legata al peccato originale, ovvero come conseguenza del diluvio universale.

Alte, svettanti e lussureggianti cime ora – a fine Settecento – si concretizzano nel pensiero collettivo e non solo più in chi già le abitava, un po’ più a valle. Sta sorgendo l’età moderna e con essa il mutamento psicologico che è anzitutto un mutamento di prospettiva. Si fa più vivo il senso dell’Io, dell’individualità e adesso – solo adesso – il contatto con la natura può essere colto nella sua spettacolarità e in ciò che suscita. Personalmente, individualmente. Anche se provoca sentimenti forti.
La natura produce la più grande emozione che l’uomo possa provare. Così lo storico londinese Burke(classe 1937) scrive in un suo saggio che tutto ciò che è terribile, è una fonte del Sublime. Sublime che – come già accennato – è tra le più alte forme di sentimento, ed ha in sé sia una componente di sgomento che una di piacere. Dettato – quest’ultimo – da quel senso di meraviglia e intima soddisfazione che provoca ciò che è incommensurabile per i nostri parametri.
Eccola: tutta la modernità del pensiero. “Ricollegabilissimo” a quello dei giorni nostri, ora che alpinismo, escursionismo e addirittura sport estremi, sono preponderanti nello scenario sportivo. Ora che l’abbigliamento tecnico per queste discipline rientra in una certa fetta del mercato, così come il turismo legato alle montagne e alla natura è sempre più in voga e fortemente in sinergia con concetti green. Ma queste formule contemporanee sono frutto di stratificazioni culturali. Perchè ad un certo punto la montagna è anche stata fonte d’ispirazione artistica ed architettonica, passando dall’amore per le rovine – malinconiche e connesse al tempo che passa – alla grande stagione del revival gotico. Dove – come scriveva John Ruskin – “le cattedrali della terra sono le montagne”. Il riscoperto amore per il gotico come stagione artistica più vicina alla natura, non rispetta davvero criteri filologici ma si muove soprattutto verso il decorativo. Ed è proprio lì che la luce diventa sovrana. La luce che entra nelle cattedrali dalle immense vetrate è simbolo del divino, dell’altissimo. Altissimo come ciò che di più vicino al cielo esista: la cima delle montagne. Ecco: montagna, spiritualità, natura. Tutto un unico grande blocco sentimentale. E non a caso nasce ora la moda dei giardini all’inglese, fatti con apparente ordine casuale; ossimoro che rende possibile la riproduzione della natura, con le sue irregolarità, in pieno stile gotico. I rami degli alberi ispiran le forme architettoniche, gli archi a sesto acuto, le guglie come rocce aguzze – per non parlare poi di Gaudì – e quella stessa natura è un tutt’uno con l’anelito dell’uomo ad elevarsi.
La montagna – nei secoli passati ed anche oggi – esercita la propria attrazione su di noi, colpendo a pieno la nostra fantasia e, ancor più, il bisogno di solitudine come ricerca interiore. Forse inconsapevolmente la percepiamo come allegoria del Medioevo. Perchè questo è – a tutti gli effetti – non solo un lunghissimo periodo storico, ma un altrove temporale. Un nome che diamo a delle idee, prima che ad una convenzionale epoca storica. Il Medioevo è un contenitore di significato e medievalità oggi evoca concetti come genuino, naturale, tradizionale. Un mulino, antichi mestieri, vita all’aria aperta, ecc..Tutti connessi alla natura e alla montagna. Idee che sono frutto di una sedimentazione storica e sono diventate più attuali che mai. Il bisogno di ritornare – lontani dal caos del mondo globalizzato – all’idea di natura totalizzante e armonica, in cui sentirci in pace. Sentimento che è alla base dei concetti di green e di ecosostenibilità.
di Manola Plafoni
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